L’ultimo ideogramma

I versi di Hai Zi nella collana di poesia della casa editrice Del Vecchio
/ 17.05.2021
di Daniele Bernardi

Da occidentali, poco o nulla sappiamo della Cina. Infatti, nonostante una folta parte di questa comunità viva al nostro fianco, è come se in essa, da un punto di vista culturale e sociale, faticassimo a penetrare. Per motivare tale considerazione – forse per alcuni discutibile – si potrebbero addurre varie ipotesi, ma non è questa la sede di un dibattito sull’argomento. Se per parlare della drammatica vicenda di Hai Zi (Chawan, 1964 – Shanhaiguan, 1989), oggi considerato il più importante poeta dell’epoca postrivoluzionaria, inizio col dire questo, è perché non c’è da stupirsi che il lettore italofono non sappia niente di uno degli autori centrali del secondo Novecento cinese. Ciò detto, a questa mancanza felici iniziative editoriali possono rimediare.

Dai miei ricordi, inizialmente ci pensò Einaudi a metà degli anni Novanta, con la pubblicazione dell’intensa antologia Nuovi poeti cinesi, dove Claudia Pozzana e Alessandro Russo riunirono autori «menglong», cioè ritenuti oscuri e di conseguenza osteggiati perché estranei alla cultura ufficiale, assieme ad altri più giovani. Fra questi, con Bei Dao, Gu Cheng, Ma Desheng e altri, vi era anche Hai Zi, allora suicidatosi da sei anni.

Lo scorso anno, invece, a ridosso del ventennale della morte, è stata la casa editrice Del Vecchio a inserire nella propria collana di poesia – certo una delle più belle, in Italia – un volume integralmente dedicato al geniale ragazzo delle campagne della provincia di Anhui: Un uomo felice, a cura di Francesco De Luca, con introduzione di Li Hongwei, postfazione di Matteo Bocchialini e con uno scritto di Zha Shuming, fratello di Hai Zi. Il libro contiene anche alcuni estratti dal diario dello scrittore.

Ma chi era Hai Zi? E perché la sua morte, alla vigilia dei fatti di Piazza Tian’anmen, ha lasciato «il mondo cinese sbigottito e sotto shock»? C’è qualcosa nella sua vicenda, e in quella di suoi altri compagni di viaggio, che tragicamente ricorda quella meravigliosa generazione di poeti che furono i russi del primo Novecento: Majakovskij, Chlebnikov, Esenin, la Cvetaeva, etc. Anche tra i versificatori dell’epoca di Hai Zi vi furono morti premature e violente (come nei casi di Luo Yihe, Ge Mai e del sopraccitato Gu Cheng), tanto che si parlò «di «epidemia di suicidi», così come avvenne dopo la pubblicazione de I dolori del giovane Werther di Goethe».

Nel levar la mano su di sé di un artista, per usare una formula di Jean Améry, c’è qualcosa di profondamente inquietante, poiché l’atto sembra rappresentare uno svuotarsi di senso universale, che chiama in causa un’intera società. Chi crea, infatti, investe di una ragione altra il linguaggio, e con esso l’organizzazione simbolica e spirituale della realtà. Attraverso il suo operato, la vita diviene qualcosa di più del lavorare per mangiare e dormire. Questa pratica si riverbera nella società elevandola, consegnandole qualcosa in cui credere. In parole povere, attraverso l’arte qualcuno si fa garante di una promessa, di una spinta in avanti.

Ecco perché la morte di Hai Zi, nonostante egli non fosse conosciuto (non quanto oggi, per lo meno: in Cina ora è inserito nei libri scolastici), fu una sorta di allarme, di grido il cui suono attraversò il paese scuotendolo. O così, almeno, mi pare di poter dire da quanto percepisco.

Figlio di poveri contadini, come Esenin trascorse l’infanzia in un mondo rurale, dal sapore profondamente antico. Ma già bambino dimostrò un’intelligenza vivissima, fuori dal comune, partecipando a soli quattro anni al «Concorso di ripetizione delle citazioni» del presidente Mao. A quindici, poi, venne ammesso alla Peking University, la più prestigiosa università della nazione. Laureatosi diciannovenne, iniziò a insegnare filosofia presso la facoltà di Scienze politiche e legge. Al contempo, dal 1982 aveva cominciato a scrivere versi.

«Da domani, sarò un uomo felice / nutrirò cavalli, spaccherò legna, girerò il mondo / da domani, penserò al grano e alla verdura / ho una casa, davanti al mare, sboccia la primavera // Da domani, scriverò a ogni parente / dirò loro quanto sono felice / la felicità a me raccontata dal fulmine / io la dirò a ogni uomo». Questo scriveva Hai Zi nel 1989, pochi mesi prima del suo gesto definitivo, in una delle sue poesie più celebri. C’è qualcosa di straziante in questa «felicità» nuda, indifesa, in questo «domani» a cui è affidata la speranza di un futuro racconto, vale a dire una memoria compiuta, in cui aleggia il sogno della primavera.

Nei suoi ultimi giorni, Hai Zi era da tempo disturbato da allucinazioni uditive (altro punto di contatto con la figura di Esenin) che non gli permettevano più di scrivere copiosamente, come era solito fare; fra le sue opere vi è un poema epico, Taiyang (il sole), di oltre quattrocento pagine. Quando si spinse fino ai binari del treno sui quali si sarebbe sdraiato, aveva con sé la Bibbia, i racconti di Conrad, Walden di Henry D. Thoureau e Kon-Tiki di Thor Heyerdahl. «La mia morte non ha a che vedere con nessuno», scrisse nel suo biglietto d’addio.

Cosa aggiungere a queste parole? Niente. Esse bastano a se stesse e ci mostrano tutta l’inimmaginabile solitudine del poeta suicida, che disegnando l’ultimo ideogramma si rivela al mondo come mistero e, al contempo, coscienza tragica dell’esistere di ognuno. È per questo che dopo aver letto autori come Hai Zi (o Paul Celan o Amelia Rosselli) una certa idea di scrittura sembra essere poca cosa, soprattutto in poesia, in confronto a progetti di creazione in cui vi è un continuo tentativo di organizzazione di una forza indomita, che rende l’opera di una densità tagliente dalla quale non possiamo che farci ferire. Se, come insegna Shakespeare, dopo aver tutto detto «il resto è silenzio», in questo caso si potrebbe invece affermare che il resto è letteratura.