Dal 1987 al ’99 – cioè dai 30 ai 42 anni – Danio Manfredini ha condotto un atelier di pittura all’interno di una comunità psichiatrica di Milano. Un’esperienza per lui fondamentale, che è stata parzialmente all’origine di due spettacoli – Tre studi per una crocifissione (1992) e Al presente (1999) – in cui dava corpo e voce, da solo, a diversi personaggi, alcuni dei quali ispirati ai pazienti della comunità di cui era operatore.
Anche Il sacro segno dei mostri, rappresentato per la prima volta nel 2008 (quattro anni dopo Cinema Cielo, a mio parere uno degli spettacoli teatrali italiani più riusciti degli ultimi vent’anni), era frutto di quell’esperienza. In scena, oltre allo stesso Manfredini, c’erano sei attori che interpretavano due o tre personaggi ciascuno, muovendosi dentro uno stanzone dalle pareti bianche (l’atelier di pittura), le cui porte si aprivano – così veniva fatto di pensare – su stanze o corridoi altrettanto asettici e spogli. In quello spettacolo Manfredini si oggettivava, assegnando la parte di se stesso trentenne a un giovane attore sempre muto e col volto coperto da una maschera di lattice.
Acutamente consapevole delle relazioni esistenti tra arte e follia (intese entrambe come scarto rispetto alla cosiddetta «normalità»), Manfredini guardava alle figure dei pazienti con un’adesione distaccata: vale a dire, con una partecipazione non disgiunta da una lucida capacità di osservazione. Nello spettacolo non c’era racconto. Il testo era formato da brevi dialoghi o da solitarie esternazioni che esprimevano frustrazione, solitudine, paura, sensi di colpa, desiderio d’amore o di sesso. A volte, però, i discorsi dei pazienti sembravano così strambi da suscitare il riso. Il sacro segno dei mostri non era uno spettacolo meramente angoscioso, dolorista: era, invece, un’opera intensamente poetica e venata di umorismo, in cui, al pari e a tratti più delle parole, contavano i corpi degli attori-personaggi: le loro posture, le stereotipie gestuali, la mutevolezza o la fissità delle espressioni facciali, le frenesie motorie o le nudità improvvisamente esibite in una disperata richiesta d’amore, a volte sull’onda della musica: l’aria Casta diva di Bellini o un’aggressiva canzone rock.
Con lo spettacolo intitolato Luciano Manfredini ci riporta all’interno di una comunità psichiatrica. Per quelli che hanno seguito, nel corso del tempo, la non abbondante produzione teatrale del sessantaduenne attore-regista-drammaturgo-cantante, il protagonista eponimo del nuovo lavoro non è uno sconosciuto. Lo hanno già visto e ascoltato nel primo dei Tre studi per una crocifissione e nella prima parte di Al presente, dove era una delle figure vividamente impresse nella memoria di un uomo (quasi un autoritratto di Manfredini) che le rievocava avendo accanto a sé un manichino (un suo doppio inanimato).
Il Luciano di oggi ha il volto un po’ più segnato dal tempo, ma per il resto è come quello del ’92: col capo coperto da una cuffia di lana, stretto nelle spalle, leggermente ingobbito, e con la camminata a passi brevi e strascicati (tipica di chi è sottoposto a trattamento con psicofarmaci). Anche il suo modo di parlare non è cambiato: ha un tono di voce rassegnato o risentito; un’articolazione a tratti biascicata, con silenzi improvvisi e indecifrabili, in cui sembra affondare e da cui riemerge cambiando argomento, interrompendo una frase per riprenderla più tardi, citando e modificando versi celebri, alternando esternazioni desolate e notazioni involontariamente comiche, e rivolgendosi sempre, nel suo desiderio di comunicare, a un interlocutore reale o immaginario, a cui dà del tu, e che in pratica coincide con lo spettatore in sala.
La vera novità dello spettacolo è che mentre nel primo dei Tre studi per una crocifissione le visioni di Luciano erano raccontate a voce, qui le immagini del suo teatro mentale si concretizzano in movimenti scenici e figure di forte plasticità, che a volte richiamano – senza mai scivolare nel citazionismo kitsch – l’iconografia sacra, il circo o la mitologia. Sono scene che in parte attingono ai ricordi dello stesso Manfredini (il quale ha dichiarato di aver preso le mosse, nel concepire lo spettacolo, da annotazioni autobiografiche), e che in larga misura sono materializzazioni di fantasie o ricostruzioni frammentate di situazioni ambientate in alcuni dei luoghi elettivi del cosiddetto «battuage» omosessuale (giardini pubblici, orinatoi delle stazioni, cinema a luci rosse), un tempo frequentati (oggi il battuage avviene soprattutto online) da cultori del cruising, voyeurs, travestiti e marchettari.
Pronunciando rare battute, in queste scene ricche di pathos (e non prive di ironia), che trattano di comportamenti generalmente ritenuti poco commendevoli, agiscono, insieme a Manfredini, cinque bravissimi attori, i cui volti sono sempre coperti da inquietanti maschere di lattice. Si chiamano Ivano Bruner, Cristian Conti, Vincenzo Del Prete, Darious Foroogh, Giuseppe Semeraro.