Lodovico Dolce (1508-1568) nasce a Venezia da un’antica famiglia. Rimasto orfano viene affidato al doge Loredan e alla famiglia Corner. Studia a Padova e al ritorno a Venezia inizia a lavorare con la tipografia Giolito come curatore dei testi. Giovanna Romei, riportando brani di sue lettere, descrive la sua vita come infelice, passata fra carcere e malattie. Un’esistenza tutta dedicata alla revisione dei testi altrui ma anche a pubblicare, sempre presso i Giolito, parecchi suoi dialoghi e trattati. Fra i primi ricordiamo Di che qualità si dee tor moglie del 1539 e il Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservare la memoria del 1562. Fra gli altri quello sulle gemme del 1565 e nei lavori teatrali troviamo il Ragazzo del 1541.
Nel 1557 stampa il Dialogo della pittura intitolato l’Aretino. Sono gli anni nei quali a Venezia si scopre una nuova sensibilità pittorica legata al colore. Se a Firenze è il disegno con il suo ordine razionale a primeggiare, a Venezia è il colore con la sua casualità. Per Leon Battista Alberti il colorito è chiaroscuro, per Leonardo Vinci ombra, mentre per i veneziani è rilievo. Qui non ci sono però pittori che siano in grado di scrivere una teoria dell’arte ma solo letterati come Paolo Pino, Pietro Aretino o Lodovico Dolce. L’Aretino è il personaggio maggiormente importante e temuto che si educa a Roma con Raffaello e Michelangelo. È proprio a lui che Dolce dedica il suo dialogo come per un complimento a quell’uomo «bizzarro», scrive Julius Schlosser Magnino, amico di Tiziano che «trovò in Venezia il suo ultimo e durevole asilo».
Il dialogo si svolge fra Pietro Aretino e il grammatico toscano Giovan Francesco Fabbrini. L’Aretino inizia subito vantando la sua amicizia con Raffaello e Michelangelo. Definisce la pittura come imitazione della natura e, di conseguenza, colui che maggiormente le si avvicina è il «più perfetto maestro». Divide la pittura in tre parti: invenzione, disegno e colorito. L’invenzione è la favola o la storia; il disegno la forma con il quale il pittore la rappresenta e il colorito le tinte con le quali la natura dipinge diversamente le cose animate e quelle inanimate. Ma il pittore non deve solo imitare la natura, bensì superarla: da qui la sua grandezza. Prende come esempio Zeusi che si accinge a dipingere Elena nel tempio dei Crotoniati. Volle vedere «ignude cinque fanciulle e, togliendo quelle parti di bello dall’una, che mancava all’altra, ridusse la sua Elena a tanta perfezione, che ancora ne resta viva la fama».
Il fondamento del disegno è la proporzione e l’uomo può essere sia nudo che vestito. Nel primo caso sarà pieno di muscoli o delicato e questa delicatezza è chiamata dolcezza.
Entrando nel dettaglio Aretino sostiene che Michelangelo eccelle solamente nel disegno e Raffaello anche nell’invenzione e in parte nel colorito. Ma la gloria del perfetto colorito spetta a Tiziano. Di più: nella chiesa dei Frati minori Tiziano giovanetto dipinge una Vergine che ascende al cielo fra gli angioli, Dio Padre e sotto gli apostoli. Questa tavola, dice, «contiene la grandezza e terribilità di Michelangelo, la piacevolezza e venustà di Raffaello, et il colorito proprio della natura».
Lentamente Dolce ci accompagna verso l’epilogo: è Tiziano il pittore divino e senza pari tanto che se fosse vivo Apelle non disdegnerebbe di onorarlo.
Con il Dolce termina la fase dell’umanesimo fiorentino. La pittura, dai colori alle forme in movimento, diventa cosmica perché bisogna fuggire la troppa diligenza per prediligere la «sprezzatura» in modo che il colorito non sia né troppo vago, né troppo pulito. Il termine «sprezzatura», tipico di quegli anni, ha origini letterarie: è stato usato da Baldassarre Castiglione nel suo Libro del cortigiano del 1528 per definire l’attitudine a effettuare delle macchie difficili con un’apparente facilità come in Tiziano e nell’uomo di corte che deve essere disinvolto e sciolto anche nelle asperità.
Bibliografia
Edizione di riferimento: Lodovico Dolce. Dialogo di pittura di M. Lodovico Dolce, intitolato l’Aretino in «Trattati d’arte del Cinquecento fra manierismo e controriforma», Torino, Giulio Einaudi, 1964
Lodovico Dolce il Veneziano
Con il letterato e poligrafo Dolce termina la fase dell’umanesimo fiorentino
/ 02.11.2020
di Gianluigi Bellei
di Gianluigi Bellei