Il secondo romanzo di Pascal Janovjak nella traduzione italiana di Maurizia Balmelli, mi pare sia prima di tutto la dichiarazione di uno scacco conoscitivo. Per mostrare quanto sia radicata e destinata al fallimento l’ambizione dell’uomo di controllare il Mondo, l’autore racconta la storia dello zoo di Roma, nel quale si sviluppa la vicenda più propriamente romanzesca.
Spazio semioticamente rilevante e velleitario per definizione, lo zoo cerca di ricreare ambienti naturali mentre tradisce continuamente il proprio carattere artificiale. A cominciare dalla strutturazione interna, fatta di percorsi più o meno obbligati che, significativamente, le varie cartine in mano ai personaggi del romanzo non permettono tuttavia di seguire in modo agevole, quasi a mimare la resistenza della Natura a ogni tentativo di normalizzazione. Risultandogli in larga parte imprevedibile, l’uomo legge inoltre il comportamento animale secondo il proprio sguardo antropomorfizzante. Capita pertanto che resti sgomento di fronte a due serpenti fratelli che si dividono un topo, l’uno ingurgitandone la parte posteriore, l’altro partendo dalla testa: strada facendo, spasmo dopo spasmo, il più grande inizia a mangiare il più piccolo, salvato appena in tempo e perciò soprannominato Fortunello dai guardiani. Dietro al finto idillio delle colline ricostruite, ci sono babbuini che sbattono la testa contro i muri, una mamma leopardo che divora il ventre del suo nuovo nato, un gorilla coperto di sangue che non smette di depilarsi.
Allo stesso modo, non è sempre possibile prevedere i successi e i fallimenti dello zoo capitolino, che Janovjak ricostruisce muovendo dall’inaugurazione del 5 gennaio 1911 e attraversando un secolo di storia romana, italiana ed europea: dal progetto che il sindaco Ernesto Nathan affida al commerciante di animali tedesco Karl Hagenbeck, agli anni del fascismo e dell’ampliamento di Raffaele De Vico, con Mussolini che si fa fotografare accanto alla leonessa Italia. Negli anni Settanta, Riccardo Fellini, fratello del più celebre Federico anche se «non gli piace granché che lo si dica», gira un documentario sulle deprecabili condizioni in cui vivono gli animali in cattività. L’effetto è devastante, anche perché le immagini raggiungono un pubblico che, grazie all’invenzione della lettiera da parte di Edward Lowe, può stare sul divano col proprio gatto sulle ginocchia, e guardare comodamente tutti gli animali esotici che la televisione gli porta in casa. Dello zoo non sembra più esserci un gran bisogno. Per il rilancio bisognerà aspettare gli anni Novanta: lo zoo si rifà il look (a cominciare, ovviamente, dalle parole: ora si chiama Parco Natura) e si plastifica, assumendo le tinte spensierate dei fenicotteri rosa che, oltre ad aprire il libro con l’immagine di copertina, accolgono e rassicurano il visitatore. Tanto nessuno si accorgerà che le loro ali sono state tarpate per impedire che prendano il volo e rovinino la festa.
Nei primi anni Duemila, e qui inizia la parte più specificamente romanzesca, lo zoo conosce una nuova crisi: gabbie arrugginite, servizi igienici inagibili, manifesti ingialliti e pochissimi visitatori. Per rilanciarlo, il Comune assume Giovanna Di Stefano come nuova «direttrice amministrativa e della comunicazione» (in realtà si tratta di un declassamento: la giunta Alemanno le fa pagare la vicinanza a Veltroni). Nel giorno in cui percorre per la prima volta i vialetti del Bioparco (ora si chiama così) per prendere possesso del proprio ufficio, Giovanna incontra Chahine Gharbi, un architetto algerino che si trova lì per una misteriosa missione. Alla ricostruzione della storia dello zoo si intreccia quindi, attraverso brevi capitoli alternati, una vicenda di desiderio fuori dal tempo; una passione fugace ma intensissima che Giovanna e Chahine faranno crescere e in larga parte consumeranno proprio all’interno dello zoo, sorta di moderno Eden che attirerà i due e permetterà loro di elaborare i rispettivi fantasmi prima di restituirli al Mondo.
Durante la loro frequentazione, capita che proprio allo zoo di Roma resti Oscar (nome che si rivelerà infelicissimo), l’ultimo esemplare di tamandino: allo stato libero è estinto da tempo, mentre la coppia dello zoo di Londra muore misteriosamente. Il successo è strepitoso, i visitatori giungono da tutto il mondo, come si fa «con un Caravaggio o una scultura del Bernini». Eppure, non è così facile vederlo o immortalarlo: Oscar passa la maggior parte del tempo nascosto dietro un cespuglio, ma al pubblico sembra bastare il fatto di essere lì prima che sia troppo tardi, prima che la morte del tamandino sancisca la certezza dell’irreparabile. Ed è questa, credo, un’ulteriore spia del velleitario tentativo dell’uomo di esorcizzare l’imprevedibilità dell’esistenza riconducendola entro logiche rassicuranti, esasperando cioè il significato di esperienze illusoriamente caricate di valore. Attraverso un processo di progressiva simbolizzazione, Oscar si trasforma da animale in oggetto di superstizione e infine in immagine stampata sugli zainetti: all’unicità dell’individuo si è sostituita la serialità della merce. Persino Salman Rushdie giungerà a Roma per vederlo e scriverci un pezzo sul «New York Times» che avvierà un grottesco dibattito internazionale sulla questione. Sono le pagine più grottesche del libro: «si cominciò a parlare del tamandino nelle cerchie più raffinate, quelle che abbracciano le cerchie del potere». Forse solo l’ambizioso Guido Anselmo Moro, il direttore scientifico dello zoo, colui che scruta gli uomini con lo stesso sguardo con cui svolge le proprie osservazioni al microscopio, aveva previsto tutto fin dall’inizio. Ma anche lui dovrà prima o poi fare i conti con l’imponderabile.
La buona letteratura è da sempre quella che si fonda sulla dialettica tra una tensione conoscitiva e l’ammissione dell’almeno parziale scacco di questa indagine. Mi pare che Pascal Janovjak lo affermi anche nell’incrociare Storia e storie: nel tentativo, cioè, di ricondurre minuscoli frammenti di realtà a un ordine superiore senza tuttavia che ciò permetta di accedere al pieno significato delle cose o, peggio, che investa la letteratura di qualsivoglia funzione riparatrice o normalizzante. Per rendersene conto basterà riflettere sul complesso ruolo dell’alter ego del narratore all’interno della finzione romanzesca: il guardiano che con i propri racconti perpetua la memoria storica dello zoo e illumina meglio di chiunque altro la condizione speculare di Giovanna e Chahine («la gente che va spesso allo zoo ha sempre un problema. Oppure ha dei bambini», dice); un salvatore di nome Salvatore che porrà fine alla vicenda del tamandino nel modo più ambiguo possibile.
Bibliografia
Pascal Janovjak, Lo zoo di Roma, Bellinzona, 2020, Casagrande.
Dove e quando
L’autore il 23 marzo alle 18.00 sarà alla Biblioteca Popolare di Ascona e il 24 marzo alle 20.30 alla Filanda di Mendrisio.