Quanta parte della straripante offerta narrativa (o poetica) contemporanea merita la qualifica di letteratura? Come riconoscere alla prima lettura gli autori che si faranno largo nel canone letterario? Difficile rispondere. Forse impossibile, perché il concetto stesso di canone – imperfetto quanto inevitabile – si definisce soltanto in rapporto al continuo lavorìo di selezione ad opera del tempo. Proprio per questo, però, il patrimonio depositatosi nel passato ci offre qualche indizio, oserei dire discriminante. Nell’avvicendarsi di epoche e generi, la letteratura degna di questo nome ha sempre mostrato anzitutto la capacità di creare mondi: di spalancare agli occhi del pubblico universi di possibilità, che prendono forma e vita grazie alle doti mimetiche e icastiche della scrittura.
Non credo che Orhan Pamuk entri di diritto nel canone in quanto Premio Nobel, ma ritengo sia un candidato con ottime credenziali perché interpreta il mestiere del letterato all’insegna del compito di inventare orizzonti umani perfettamente delineati nel loro complesso e in ogni loro dettaglio. Si pensi al romanzo Il museo dell’innocenza (2008), il cui effetto di realtà è stato tale da portare all’istituzione, a Istanbul, di un «museo letterario» che espone i reperti materiali, gli oggetti iconici di una vicenda di invenzione. Tra reale e immaginario, l’ultimo lavoro, Le notti della peste (2021), raccoglie allora lo stimolo pungente della contemporaneità per dare corpo ad una nuova trasfigurazione narrativa del dramma senza tempo delle epidemie e della fragilità mortale dell’umanità di ieri e di oggi. Senza mai interrompere il dialogo con la tradizione precedente (in esergo è posta, non a caso, anche una riflessione manzoniana sulla peste milanese del Seicento), Pamuk si concede quindi la libertà di prendersi settecento pagine per raccontare come la morsa della pestilenza abbia attanagliato all’aprirsi del Novecento la fittizia isola di Mingher, gioiello d’immaginazione del Mediterraneo orientale. E lo fa adattando alle proprie esigenze il modello del romanzo storico, forgiato per penetrare i risvolti intimi e i particolari minuti della storia che si sottraggono all’analisi storiografica, perché le vicende terribili di quel tempo «non potevano essere comprese solo con il metodo storico, ma richiedevano l’arte del romanzo» (come scrive un’immaginaria studiosa della civiltà mingheriana nella Prefazione al libro).
Si potrebbe obiettare che le settecento pagine siano anche troppe. O meglio, eccessive in rapporto alla densità di eventi e personaggi. Certo, il racconto ripercorre le fasi progressive dell’epidemia e il precipitato di iniziative individuali e reazioni collettive che, sull’onda del caos pestilenziale, inducono Mingher a dichiarare la propria indipendenza dall’Impero ottomano e ad affrontare un complesso percorso di consolidamento dell’identità nazionale. Ma tutto questo non basta a giustificare la mole del romanzo, né il passo lentissimo della narrazione. Le misure adottate da Pamuk servono, piuttosto, a introdurre il lettore nella realtà di Mingher e a confinarcelo più o meno forzatamente, come accade agli appestati in quarantena. Soltanto così si arriva a percepire l’isola come spazio irrimediabilmente chiuso, che si è condannati a percorrere e ripercorrere in ogni suo quartiere e anfratto (con tanto di piantina offerta in apertura del libro), ad amarla per la sensualità accattivante delle bellezze naturali e la vivacità della popolazione, a odiarne l’orizzonte angusto, le contraddizioni e le violenze intestine. Soltanto così Mingher può diventare, almeno per il tempo della lettura, un mondo intero.
Ma, si sa, quando la letteratura genera mondi alternativi agisce soprattutto per volontà di comprendere l’unico mondo che ci sia dato. Non tanto crea, ma ricrea; inventa nel significato etimologico del verbo, cioè trova, o più precisamente ritrova qualcosa di nostro. Nelle notti oscure della peste di Mingher si può riconoscere facilmente come nostra tutta l’irrazionalità alimentata dalla paura del contagio e dall’insofferenza nei confronti delle misure restrittive; comuni e ricorrenti sono gli attacchi (anche mortali) a quanti si adoperano per arginare il male o ai cronisti che tentano di darne notizia, così come le ambiguità e i compromessi cui si piegano i personaggi che di volta in volta si trovano ad esercitare il potere (dal governatore ottomano al giovane militare nazionalista fino ai leader religiosi).
Le torture perpetrare nelle carceri rispecchiano le vicende seicentesche ritratte da Manzoni nella Storia della colonna infame, e la soppressione del diritto di cronaca somiglia da vicino alla quotidianità della Turchia di Pamuk. Perché in fondo – scrive ancora la fantomatica prefatrice – «l’arte del romanzo si basa sulla capacità di raccontare le nostre storie come se appartenessero ad altri, e di raccontare le storie degli altri come se fossero le nostre».