«Ho iniziato per caso, a sette anni: papà portò in casa un vecchio pianoforte usato, a quell’età ci si mette su subito le mani per gioco, si strimpella; ma ben presto il gioco si fece interessante, diventò studio rimanendo divertimento, prima complementare ad altro – mi sono diplomato al liceo artistico – poi come occupazione principale, anche se non ho mai abbandonato le mie altre passioni: colleziono stampe antiche e moderne, di tutti i tipi». Riassume così il suo percorso musicale Davide Crespi, concertista, didatta, divulgatore e compositore che ama riflettere sulla storia e sul ruolo dell’arte oggi squadernando visioni ampie e originali.
«Dopo il diploma al Conservatorio di Milano ho tenuto i primi concerti e ottenuto i primi applausi, ma presto ho iniziato a riflettere sul tipo di vita che il concertismo impone: tante tensioni e soprattutto una costante solitudine perché ci si continua spostare da una città all’altra, da un albergo all’altro e, nonostante il pubblico davanti, anche sul palco ci si ritrova fondamentalmente soli. Insomma, dopo un po’ mi sono chiesto se ne valesse la pena e il giudizio che ne è emerso è stato negativo; non sto parlando in generale, parlo di me, della mia situazione, delle mie attitudini e della mia personalità; tenendo in considerazione tutti gli aspetti ho intuito che desideravo altro».
Altro, per Crespi, ha assunto la forma della didattica e della composizione: «Quando si è piccoli o giovani si è attratti dalla figura del concertista: è quella che abbaglia, riempie gli occhi e fa sognare, infatti spesso i miei allievi mi chiedono se li ritengo in grado di intraprendere questa strada. Io sono molto cauto perché è un mestiere difficile. A me piace insegnare perché mi costringe a rendere ragione delle mie posizioni e allo stesso tempo ad aprirmi ad altre prospettive».
Proprio questo desiderio ha portato Crespi a privilegiare, nelle esibizioni pubbliche, la formula della lezione-concerto: «Piace tantissimo, al pubblico e anche a me, perché mi piace suonare, ma mi piace e tanto parlare di musica: c’è un mistero dentro e dietro le note che talvolta si intuisce confusamente ed è bello permettere a chi non ha studiato uno strumento di entrare in questo mistero, capire come un compositore sia riuscito a dar forma all’ineffabile».
Compositore è diventato lui stesso, diplomandosi col massimo dei voti sotto la guida di Elisabetta Brusa e Sonia Bo, «Un’esponente di primo piano dei nuovi linguaggi», da cui però Crespi non si sente ispirato né convinto: «Ho incontrato anche altri grandi compositori d’oggi, da Salvatore Sciarrino a Franco Donatoni, ma lo stile e il linguaggio delle avanguardie mi sono sempre rimaste lontane sia come sentire spirituale sia come esperienza estetica. Le ho studiate e per diplomarmi ho dovuto anche cimentarmici, ma è stato un dazio da pagare per terminare gli studi; appena ho potuto mi sono messo a comporre usando linguaggi ben più tradizionali: il romanticismo, Chopin e i suoi Notturni; me lo sono potuto permettere perché non ho mai concepito la composizione come un mestiere con cui vivere, ma come un’esigenza personale che arricchiva il mio essere musicista».
Crespi ammette «di faticare a capire certa musica moderna; i suoi ferventi sostenitori ne esaltano la complessità, le ferree logiche matematiche che la strutturano, ma sempre mi domando: è vero, sono opere straordinariamente complesse e c’è da rimanere ammirati davanti alla mente che ha potuto dominare una tale difficoltà concettuale, ma dov’è la bellezza? Dove riecheggia un messaggio che io possa comprendere e che mi susciti sentimenti e pensieri? Forse è un mio limite. Ascoltando ad esempio la Musica per archi, percussioni e celesta di Bartok si rimane spiazzati da certi modernissimi effetti, come i glissandi degli archi, le asprezze e le dissonanze; eppure Kubrick usò proprio questa musica in un punto di Shining e ci sta benissimo: il grande regista aveva capito che per quel momento di tensione e di spavento quelle note erano perfette; ed era uno che conosceva la musica, spaziando da Strauss a Schubert fino a Ligeti».
Proprio questa riflessione spinge Crespi al cuore del problema: «Da molto rifletto sul perché siano proprio i film dell’orrore a usare tanta musica: il non avere melodie evidenti o punti di riferimento esprime paura, tensione, mancanza di certezze, che sono tipiche della nostra epoca. Invece nel passato si usava la musica tonale, con un centro di gravità solido e immediatamente riconoscibile. In questo credo che la musica sia stata anche in questi ultimi decenni lo specchio di come l’uomo concepisca sé e la realtà che gli sta attorno: non sto parlando solo della musica «colta», pensiamo al rap e alla trap con gli argomenti di cui parlano e che catturano così tanti giovani».