All’inizio c’è lo sguardo candido del bambino. Che guarda al nonno e alla sua farmacia in un paesino presso Heidelberg. Quella Germania che, grazie agli americani, è rinata economicamente nel dopoguerra e – a differenza dell’altra Germania, di là del Muro – si è stabilizzata al centro d’Europa. «Noi inglesi guardiamo ancora i tedeschi con una rete di pregiudizi – inizia a dirci Alexander Starritt – e un senso di inferiorità per la loro economia. Noi abbiano vinto la guerra. Ma la Germania, dopo la catastrofe del nazismo, si è ripresa e ci ha superato dal punto di vista economico».
È forse questa dei pregiudizi fra le nazioni e le generazioni la lente migliore per leggere La ritirata, il romanzo di Starritt appena pubblicato dalle edizioni Guanda. Il titolo originale del romanzo di Starritt – che è di madre tedesca, ma è cresciuto in Inghilterra – è We, Germans: un gioiello di 224 pagine che si leggono di un fiato. «Con il titolo originale giocavo un po’ con i pregiudizi inglesi contro i tedeschi, ma in parte corrispondono – ricorda l’autore – al carattere di mio nonno». Da bambino lui era spesso lì ad Heidelberg: «di domenica nonno era sempre in giacca e cravatta – spiega Starritt – e ai compleanni t’invitava al ristorante perché così si fa».
Solo crescendo Alexander intuisce quello che il nonno – che voleva studiare chimica all’università – ha vissuto dal settembre 1939, l’inizio della guerra, al crollo del nazismo nel ’45: e cioè l’inferno. Un’apocalisse che per lui e molti altri prigionieri tedeschi in Russia, è durata ancora anni. Provocato dalle domande del nipote, il nonno – sull’orlo dei 90 anni – risponde al nipote con una lettera. In cui ricostruisce ciò che ha visto nei sei anni di guerra. E poi nei gulag.
«Quella scatenata da Hitler in Polonia e in Russia, sintetizza Starritt, è stata una cruentissima guerra di stampo coloniale, che l’esercito tedesco ha combattuto senza pietà contro soldati e civili per lo sterminio dei popoli slavi». Ma come è possibile che dei ventenni abbiano potuto compiere, per anni, massacri contro i civili, e l’orrore dell’olocausto, il crimine più efferato mai compiuto da mano umana? «Da anni leggo analisi sulla guerra e misfatti della Wehrmacht e delle SS, spiega Starritt, e ora che anche mia madre è morta volevo lasciare un segno per ricordare la vita di mio nonno».
Nelle prime pagine del romanzo, all’inizio del Blitz sferrato dai nazisti in Polonia, lo vediamo ancora orgoglioso «il nonno», a cavalcioni del suo obice. Ma via via racconta al nipote fasi sempre più orripilanti di una guerra infernale. Starritt si è soffermato solo su un paio di scene crudeli che, dall’avanzata sino a Stalingrado si sono verificate a migliaia, specie nella ritirata della Wehrmacht dall’Est. E davanti a cui non puoi fare a meno di porti la domanda-chiave del romanzo: come si può arrivare ad impiccare a un albero gli abitanti di un intero villaggio?
«Probabilmente, spiega Starritt, per un malinteso senso del dovere, per l’educazione tutta tedesca al rigore, che ha spinto soldati come mio nonno a compiere orrori e a continuare a combattere sapendo che, dopo Stalingrado, la guerra era perduta». Nel romanzo rivediamo Meißner – è il nome del nonno – che vestito di stracci vaga con altri quattro disperati nelle campagne ucraine cercando cibo. E assistendo appunto agli scempi della Wehrmacht. Anche il nonno e il suo gruppo, le barbe lunghe, le mantelle dei rumeni addosso, ai piedi stivali dei russi, sono ormai una soldateska allucinata dalla fame. «Giunto in Austria, mio nonno è stato acciuffato dai partigiani e gettato nei Gulag».
Quando nel ’48 tornerà in Germania, quel ragazzo che voleva studiare chimica era pelle e ossa. Ma nel lazzaretto c’è un’infermiera che gli ridà la forza di continuare a vivere: la nonna di Alexander. La ritirata non vuole rispondere a tutte le angoscianti domande sul perché l’uomo compie eccidi come quelli. Ma ci consente di leggere, 80 anni dopo quei crimini, come i nipoti guardano a quegli anni oscuri. «La mia generazione, dice Starritt, non guarda più a quegli orrori con le categorie dei nostri genitori nel ’68. Allora si cercava di capire le violenze estreme analizzando la mente di Hitler, la follia di Himmler, o gli atti di eroismo di coraggiosi ufficiali come von Stauffenberg e il suo attentato contro Hitler».
Ma le armate scatenate da Hitler contro Stalin erano formate da soldati come quelli che incontriamo nel romanzo. «Oggi guardiamo alla singola persona, e non certo per empatia per quei soldati come mio nonno. Che per tutta la sua vita sentì vergogna per gli atti compiuti in guerra». Categorie come la «colpa collettiva» dei tedeschi, di un’intera nazione «sono falsanti, una malintesa nozione religiosa», conclude Starritt. Più che la «colpa» è la moralità del singolo che conta, e se prova vergogna per ciò di cui lui, e solo lui è responsabile.