Sebbene, negli ultimi anni, Neil Young abbia prodotto in media un album ogni due anni – in contrasto con parecchi suoi coetanei e altri «mostri sacri» del rock, ormai sempre meno inclini a frequentare lo studio di registrazione –, si può comunque affermare che ogni nuovo lavoro del cantautore canadese costituisca tuttora un vero e proprio evento sulla scena pop-rock mondiale; e poiché il lungo e difficile «iato» causato dal recente lockdown sembra aver spinto molti artisti a prodursi in nuovi exploit discografici, ecco che anche il buon Neil sceglie proprio questo momento per donare al pubblico un nuovo (e da tempo annunciato) CD, dal titolo di Homegrown.
Un album che, fin dalla copertina, presenta però un gusto quantomeno datato, talmente vintage nelle sonorità e nello spirito stesso di ogni brano da apparire quasi come una sorta di «capsula temporale» proveniente dagli anni 70; sì, perché Homegrown fa, in realtà, parte della Special Release Series, branca minore del progetto Archives, dedicato alla pubblicazione dell’intera opera di Neil – e, come tale, è composto da registrazioni risalenti nientemeno che al 1974 e ’75, allora realizzate per un disco mai dato alle stampe. Erano quelli i tempi in cui Young era reduce dal successo monumentale di Harvest (1972), distinto da una perfetta fusione tra il folk-country dei vecchi tempi e i sapori West Coast derivanti dall’esperienza con Crosby, Stills e Nash: oggi la chiameremmo «musica lo-fi», ma di fatto, all’epoca, ogni dettaglio di quest’album «ritrovato» – dalle liriche agli arrangiamenti, fino al sound dallo spirito decisamente laid back – ricalcava appieno la formula destinata a divenire il «marchio di fabbrica» di colui che è da sempre il cantautore acustico e minimalista per eccellenza; facendo di Homegrown l’anello mancante tra il già citato Harvest e Comes a Time (1978), anche in virtù del fatto che molti dei brani qui presenti sono già noti ai fan, in quanto più volte proposti dal vivo nell’arco degli anni.
Fin dalla traccia di apertura, percepiamo così tutta la struggente sincerità del Neil Young prima maniera: un artista che, oggi come allora, non si è mai tirato indietro davanti ad argomenti anche potenzialmente delicati, sempre esprimendo ogni inquietudine e dramma personale tramite registri diametralmente opposti – muovendosi, cioè, tra la calma riflessione degli anni 70 e la ben più rabbiosa protesta dei tempi di Rockin’in the Free World e del sodalizio (tuttora in corso) con la band dei Crazy Horse. In Homegrown, Young passa dal tratteggiare la caducità struggente di qualsiasi legame umano – su tutti, l’allora recente separazione da Carrie Snodgress e il rapporto con il primogenito disabile (Separate Ways e White Line) – al descrivere momenti di nostalgia innata, quasi sospesa in uno spazio-tempo indefinito (si vedano i lenti Mexico e Little Wing); ed ecco come, ancora una volta, egli si dimostra un maestro nell’arte della cosiddetta «perfezione della semplicità», riuscendo, in poche pennellate, a tratteggiare con maestria i moti del cuore e la necessità di accettarne le inevitabili ripercussioni. Il tutto senza, però, farsi mancare momenti di spensierata e quasi fanciullesca innocenza (Love is a Rose e Try), affiancati alla solita, scherzosa irriverenza da hippy fuori tempo massimo (We Don’t Smoke It No More).
Inoltre, come da copione, Homegrown non esula dalle escursioni in quel divertito e sarcastico pseudo-country da sempre tanto caro a Young: la title track dell’album (già pubblicata in versione più rifinita nel disco American Stars ’n Bars, del 1977) diventa così irresistibile occasione per una non troppo velata satira della mentalità a stelle e strisce, mentre Vacancy offre un perfetto esempio di efficace minimalismo rock. Del resto, questo senso di «americanitudine» – ovvero, il forte, eppure critico, senso di appartenenza culturale e musicale alla terra statunitense – pervade l’intero CD, facendo da sottotesto, tra gli altri, al curioso esperimento sonoro rappresentato da Florida (brano interamente in recitativo, caratterizzato da sonorità stridenti e «accidentali») e le languide ballate Kansas e Star of Betlehem.
Certo, come spesso accade con le recenti pubblicazioni di Neil, a tratti anche quest’album presenta (seppur in misura minore) i soliti limiti di post-produzione, dando l’impressione di trovarsi davanti a un disco di outtakes non del tutto rifinito, messo insieme con vaga fretta; quasi la quantità fosse ormai divenuta, per l’artista, più importante della qualità – come suggerito dalla prolificità quasi eccessiva degli ultimi vent’anni, nell’arco dei quali l’abbiamo visto sfornare CD piuttosto brevi e dalle finiture a volte poco curate. Tuttavia, in quanto istantanea del passato, Homegrown rappresenta una valida aggiunta alla corposa discografia di Young – un vero «flashback» non solo per i completisti e i fan di vecchia data, ma anche per gli amanti della grande musica americana nella sua accezione più scarna e autentica.Un particolare dalla copertina del disco.
L’ennesima incursione nel passato
Dischi - Neil Young dà alle stampe l’irresistibile Homegrown, originariamente inciso a cavallo tra il 1974 e il ’75
/ 17.08.2020
di Benedicta Froelich
di Benedicta Froelich