«Suonare qui a Lugano ha sempre un sapore speciale. In sala trovo tanti amici e se sul palco c’è la Osi gli amici sono anche attorno a me: alcuni di loro erano miei compagni di Conservatorio, quelli più grandi mi hanno tenuto a battesimo quando avevo appena quattordici anni. Lo ricordo ancora, fu una delle mie prime volte con l’orchestra: suonai il Concerto di Grieg, poi arrivò quello di Schumann e via via tanti altri, perché è raro che passi un’intera stagione senza esibirci assieme».
Se in orchestra hai amici e musicisti che ti conoscono da vent’anni, dialogaree intendersi è decisamente più facile
Ovunque vada Francesco Piemontesi viene salutato come un grande pianista: è stato applaudito nei templi del concertismo mondiale, dalla Philharmonie di Berlino alla londinese Wigmore Hall, dalla Carnegie Hall di New York al Musikverein, sede del mitico Concerto di Capodanno viennese; ha suonato con le migliori orchestre e i più grandi direttori, dalla Gewandhaus alla Los Angeles Symphony, da Zubin Mehta a Ton Koopman. Però in Ticino, nonostante compirà quarant’anni la prossima stagione, è e rimane l’enfant du pays, il giovane e prodigioso pianista locarnese che aveva conquistato anche Martha Argerich quando organizzava il suo Progetto sulle sponde del Ceresio e che ad appena trent’anni aveva assunto la guida delle gloriose Settimane Musicali di Ascona, la cui edizione 2022 presenterà il giorno dopo essersi esibito al LAC.
Giovedì prossimo alle 20:30 l’Orchestra della Svizzera Italiana e Markus Poschner, che dirigerà anche la Seconda Sinfonia di Schumann, lo attendono con uno dei concerti più monumentali, amati, eseguiti dell’intera letteratura romantica, lo splendido e difficilissimo Concerto n. 1 in re minore di Brahms. «È difficile suonarlo, ma non è certo facile raccontarlo» esordisce Piemontesi. «Di quest’opera mi affascina tutto. Partiamo dalle melodie: tante, diversissime tra loro nel piglio e nell’umore; poi le armonie: ugualmente ricche, profonde, dense; e la forma: ma quale altro concerto per pianoforte può vantare un primo movimento di oltre venti minuti?» Un’ampiezza motivava forse dall’origine di quest’opera: Brahms stava lavorando a una sinfonia, ma insoddisfatto abbandonò l’impresa rielaborando quanto composto fino a quel momento nel Concerto in re minore. «Le dimensioni dell’orchestra sono davvero sinfoniche: accanto al pianoforte si schierano ottanta-novanta strumenti. Si immagini quando ci si trova seduti davanti alla tastiera e si ascolta questa enorme falange strumentale suonare per quattro minuti l’inizio del Concerto: bisogna saper reggere il peso sonoro dell’orchestra, e non solo all’inizio, bensì fino alla fine.
In molti reputano il Secondo Concerto più difficile; io non concordo perché quello in si bemolle maggiore è sì impervio nei primi due movimenti, ma nel terzo e quarto tempo la scrittura orchestrale diviene più snella e la tecnica pianistica si fa più fluida, direi quasi mendelssohniana, così il tutto risulta più rilassato. Per questo ho iniziato a studiare seriamente il Primo solo una decina d’anni fa, e ne ho poi aspettati tre per eseguirlo in pubblico. Qui non c’è mai un attimo di respiro, neppure nelle ultime battute: anche quando arriva la luminosa modulazione dal drammatico re minore al solare re maggiore la scrittura rimane densa, pesante, potente, e il pianoforte continua a macinare note e accordi».
Eppure per Piemontesi la vera sfida esecutiva non sta nelle granitiche ottave che il solista deve scolpire lungo tutta la tastiera o nelle rapidissime scale, bensì «nell’essere, tutta questa grandiosità, fondamentalmente una scrittura dal respiro cameristico. Brahms fa dialogare il pianoforte con ottanta-novanta strumenti come se fossero tre-quattro archi, come se stesse suonando i suoi due Quartetti o il Quintetto. Potrei definire la concezione di quest’opera musica da camera allargata, dove il pianoforte fa quasi parte dell’orchestra. In altre parole la parte solistica è esigente, ma è sempre pensata in dialogo con diverse parti dell’orchestra – ora i fiati, ora gli archi, ora un singolo strumento – esattamente come accade nel Concerto di Schumann. Per questo è sempre bellissimo suonarlo: la responsabilità non è solo del solista, ma anche di direttore e orchestra, perché l’orchestra deve fare molto, c’è grande integrazione. E se in orchestra hai amici e musicisti che ti conoscono da vent’anni, dialogare e intendersi è decisamente più facile».
Il riferimento a Schumann non è casuale: questi, critico di riferimento per i contemporanei oltre che compositore e pianista, fu lo scopritore e il mentore di Brahms. «Oggi visita di un giovane, Brahms: un genio» scrisse dopo che l’amburghese si era presentato sottoponendogli alcuni suoi lavori pianistici. E quando Robert fu vittima dei suoi tragici problemi psichici, Johannes divenne l’amico e il confidente musicale della moglie di Schumann, Clara Wieck, a sua volta grande virtuosa del pianoforte.
Riflettendo sulla biografia non solo artistica, ma anche umana di Brahms, Piemontesi confessa di essere profondamente colpito «dal contrasto tra il travolgente slancio giovanile che vibra soprattutto nel primo e nel terzo movimento, e un aspetto religioso, profondamente e sinceramente spirituale, che emerge non solo in tutta la parte centrale, ma nei temi in maggiore e nelle oasi di pace e gioia che si aprono in tutto il concerto».
Comunque il momento più toccante è l’Adagio centrale, con la poetica, sommessa introduzione orchestrale ripresa dal pianista con assorti e delicati accordi: «Sono rimasto molto colpito quando, qualche anno fa, uscì la nuova edizione del Concerto curata da Paul Badura-Skoda, altro grande pianista, prendendo in considerazione anche lo spartito personale di Brahms: in corrispondenza del tema che apre l’Adagio, il compositore aveva letteralmente contrappuntato ogni nota con una lettera della preghiera cristiana Benedictus qui venit in nomine Domini; al di là della nostra percezione, delle nostre impressioni, innanzitutto per lui questa musica doveva avere un significato realmente spirituale».