Grazie alla sua conformazione geografica, nel corso dei decenni la Svizzera si è, come naturale, sempre distinta quale una delle nazioni protagoniste sulla scena alpinistica internazionale, dando i natali a numerosi scalatori di talento. Tra questi, uno in particolare si è fatto notare per la commistione pressoché unica tra lo spirito scientifico del medico di professione e la passione assoluta per l’arte dell’alpinismo di alto livello: si tratta di Edouard Wyss-Dunant, le cui imprese e temperamento hanno lasciato una traccia indelebile in tale ambito, non solo a livello svizzero.
In verità, i primi passi di Wyss-Dunant si svolsero seguendo la vena scientifica paterna: nato nell’odierna Alsazia il 17 aprile 1897, frutto dell’unione tra un chimico svizzero-tedesco e una vallesana, Edouard studiò medicina dapprima a Ginevra e poi a Zurigo, dove si sarebbe specializzato in radiologia, esercitando come praticante a Berna. E fu proprio nel periodo bernese che egli iniziò a dedicarsi all’alpinismo, iscrivendosi al locale club alpino (l’Akademischer Alpenklub Bern), e arrivando a scalare le maggiori vette dell’Oberland Bernese – su tutte, il celeberrimo Eiger (affrontato dalla cresta Mittellegi).
Nello stesso periodo completò una doppia traversata del Cervino e del Dent d’Heréns (in seguito avrebbe fatto ritorno al Cervino anche in solitaria), e, in coppia con Marcel Kurz, perfino del Monte Bianco, il picco più alto dell’intera catena alpina – per poi concentrarsi anche sulle cime africane e messicane, nonché sulla Groenlandia. Un’impresa in particolare avrebbe lasciato il segno: la spedizione che, nel 1949, lo condusse, insieme a diversi colleghi ginevrini, a esplorare vari picchi della regione himalaiana del Kanchenjunga.
In effetti, la vera, grande occasione della vita di Wyss-Dunant sarebbe giunta dopo il ritorno a Ginevra, città in cui aprì il suo studio medico e convolò a nozze con Lucrèce, destinata a rimanergli accanto per tutta la vita: le molte esperienze vissute nei luoghi più disparati, dal circolo artico ai deserti – e da egli stesso narrate in una serie di volumi, oggi veri e propri capisaldi della letteratura di viaggio – fecero sì che, alla non più giovanissima età di 55 anni, venisse scelto come leader della prima spedizione svizzera all’Everest: un’impresa che, nel 1952, faceva seguito ai precedenti tentativi elvetici di esplorazione dell’Himalaya del ’39, ’47, e, come detto, ’49, tutti compiuti con il supporto della SFAR (Fondazione svizzera per le ricerche alpine). Ciò che distingueva l’impresa del ’52 era il fatto che stavolta il fulcro di tutto sarebbe stato proprio la famigerata cima dell’Everest, la cui esplorazione era già costata la vita ai membri di diverse spedizioni internazionali (su tutte, il tentativo britannico del 1924, conclusosi con la misteriosa scomparsa del celebre George Mallory e del suo compagno Sandy Irvine).
Tuttavia, nel caso della spedizione svizzera del ’52 l’ascesa della montagna più alta del mondo non era stata davvero presa in considerazione: i reali obiettivi erano piuttosto l’esplorazione del punto d’accesso alla cima dall’elusivo South Col e del ghiacciaio Khumbu, collocato proprio a cavallo tra l’Everest e il vicino picco del Lhotse. Nonostante questo, due membri del gruppo di Wyss-Dunant – Raymond Lambert e lo sherpa Tenzing Norgay – sarebbero arrivati molto vicini (appena 300 metri!) a conquistare la cima dal versante nepalese, raggiungendo gli 8595 metri d’altitudine sulla cresta sud-est. Davvero intrigante, se si pensa che appena l’anno successivo, quando venne lanciata una nuova spedizione britannica, il primo uomo a toccare finalmente la cima dell’Everest fu proprio il veterano Tenzing Norgay, in coppia con il neozelandese Edmund Hillary.
Per molti versi, la spedizione svizzera avrebbe fatto la storia proprio grazie alla leadership di Wyss-Dunant, il quale si guadagnò il rispetto di tutti per via della sua calma e circospetta sicurezza nel dirigere le operazioni; e poiché tutti e nove i membri del gruppo provenivano dalla città di Ginevra, principalmente dall’esclusivo club alpinistico «L’androsace», tale familiarità permise loro di essere particolarmente affiatati e uniti. Influenzato dalla propria esperienza come medico, Wyss-Dunant fu inoltre il primo a coniare l’oggi celeberrimo termine «Todeszone» («zona della morte») come definizione universale del livello di altitudine – circa 8000 metri – al quale la mancanza di ossigeno rendeva quasi impossibile, per un essere umano, la prosecuzione della scalata dell’Everest.
Ma i risultati della spedizione sarebbero stati notevoli anche da altri punti di vista: oltre ad aver raggiunto un’altitudine record sulla cresta sud-ovest, gli alpinisti avevano aperto una nuova, fondamentale via d’accesso all’Everest, il tutto in condizioni metereologiche molto difficili. E naturalmente, gran parte del merito per tale successo andò a Wyss-Dunant e alla sua riflessiva, calma autorità: una combinazione di saggezza e gentilezza, che, unita alla sua perfetta conoscenza dei meccanismi fisiologici dell’organismo umano, ne faceva un capospedizione ideale.
Oltre alla presidenza del Club Alpino Svizzero (e, tra il 1964 e 1968, della UIAA, «Union Internationale des Associations d’Alpinisme»), il successo dell’impresa del ’52 assicurò l’immortalità a Edouard – il quale alla sua morte, avvenuta il 30 aprile 1983, si lasciò alle spalle, oltre alla gratitudine di tutti coloro avessero mai avuto a che fare con lui, anche un prezioso resoconto scientifico sui rischi rappresentati dall’ipossia alle altitudini himalaiane (1954). Eppure, al di là dell’innegabile grandezza alpinistica, Wyss-Dunant viene oggi da molti ricordato soprattutto per la sua ammirevole modestia e onestà, nonché per la mancanza assoluta di divismo: proprio le stesse caratteristiche che lo avrebbero reso un leader magistrale, capace di fare della storica spedizione elvetica di quasi 70 anni fa un invidiabile esempio di eccellenza assoluta.