Un uomo dai modi gentili e paterni cuce sulla pelle di una donna un colletto ricamato: con due punti di ago e filo imbastiti ai lati della gola, salda al suo corpo uno degli oggetti più emblematici di una tradizione tanto familiare quanto oppressiva, simbolo da una parte di un pregevole sapere artigianale prettamente femminile, metafora dall’altra della sottomissione ai codici di una cultura di genere radicati nel tempo e difficili da estirpare.
È questa una delle performance più intense dell’artista di origini siciliane Silvia Giambrone, colei che si lascia cucire addosso un pizzo mettendo in scena un’azione che reca con sé una forte carica di consapevolezza, la sola in grado di far comprendere a fondo il complesso sistema di ambiguità e pregiudizi che permea la società e di portare a riedificare le politiche identitarie delle donne.
Nata ad Agrigento nel 1981, Giambrone vive e lavora tra Roma e Londra ed è intenta da anni a indagare con linguaggi differenti, che spaziano dalla performance all’installazione, dalla scultura al video, le relazioni umane e sociali, focalizzando la sua attenzione sui rapporti di potere fondati sul genere. Con un approccio tanto radicale quanto poetico, l’artista è capace di cogliere con intuito e raffinatezza le intricate dinamiche interpersonali, tracciando un percorso che stimola la riflessione sui ruoli e sulle responsabilità di ciascun individuo.
La tua ricerca pone particolare attenzione sui temi dell’addomesticamento e dei rapporti di potere. A quale forma di assoggettamento fai riferimento con i tuoi lavori?
Mi occupo delle forme di assoggettamento meno esplicite, più sotterranee, quelle che non si possono stigmatizzare con facilità e che proprio per questo risultano più efficaci sul lungo termine e più difficili da debellare. Spesso non sono visibilmente riconoscibili perché si manifestano attraverso sottili modalità di persuasione che si instaurano soprattutto nella sfera privata, anche se poi acquistano una valenza universale. A queste forme di assoggettamento non sfugge nessuno, indipendentemente dal contesto sociale e dalla cultura.
L’ambiente domestico è il luogo d’elezione di questi conflitti di potere, tanto che nella performance Nobody’s Room fai una sorta di parallelismo tra la guerra vera e propria e le dinamiche relazionali che si consolidano nella sfera casalinga. Spesso, poi, nelle tue opere sono protagonisti oggetti e mobili quali testiere del letto, specchi, lenzuola, tappeti, posate… Cosa rappresentano per te gli oggetti che popolano la casa?
Definisco le cose che utilizzo per le mie opere «oggetti traditori», ovvero oggetti che nel momento in cui abbandonano la funzione che noi tradizionalmente gli abbiamo attribuito ci danno un’occasione di riflessione e di resistenza. Quando per esempio metto al posto del vetro di uno specchio della cera con spine, snaturando così l’oggetto stesso, cerco di renderlo un elemento che ci parla, che ci sta chiedendo di sospettare della nostra realtà. Questi oggetti ci suggeriscono un altro modo di osservare le cose, sono testimoni di ciò che ci accade: quello che mi interessa è che il loro essere testimoni venga reso esplicito poiché tutto ciò che per noi è familiare finisce con l’assuefarci. Ciò che faccio è alterarli a partire proprio dal loro «potenziale di familiarizzazione addomesticante».
Tante volte la violenza unisce, salda, può arrivare addirittura ad apparire bella. È un meccanismo che spieghi molto bene nel video Sotto tiro, dove il soggetto, in un primo momento infastidito e impaurito dalla minaccia, finisce poi con il conviverci e il familiarizzarci, forse anche per esorcizzare la paura. Come interpreti il rapporto tra vittima e carnefice? E come può essere modificato a tuo avviso?
La violenza spesso crea un’impossibilità o una grande difficoltà nell’affrontarla. Alcuni studi neurologici hanno di recente dimostrato come un trauma sulla mente inibisca fisiologicamente delle risposte. La vittima non ha più gli strumenti per reagire proprio perché l’abuso glieli ha sottratti. Il primo passo per fronteggiare questa situazione è la consapevolezza della sopraffazione. Dopo una violenza di qualsiasi tipo non si può più pensare a noi stessi come prima ma è necessario porsi in una fase di transizione che ci rende coscienti del fatto che si è formato un certo tipo di legame e che in qualche modo bisogna scioglierlo. Oggi questo è ancora un grande tabù sociale.
Il messaggio veicolato dai tuoi lavori è profondo e complesso. Credi però molto anche nel valore estetico dell’opera d’arte. Come riesci a coniugare ed esprimere visivamente questi due aspetti?
Credo che le immagini abbiano un grande potere. Confido nella consonanza segreta che c’è tra l’estetica dell’immagine e la nostra psiche, la nostra mente. È un’intesa in parte innata e in parte alimentata con l’educazione. Un’opera d’arte, proprio grazie al suo valore estetico, può modulare una forza capace di veicolare meglio un certo messaggio. Riuscire ogni volta a trovare questo accordo si rivela una delle cose più interessanti anche a livello personale. Le soluzioni estetiche, infatti, sono quelle che più mi «tradiscono»: riesco a tenere perfettamente sotto controllo il messaggio che voglio comunicare ma quando poi cerco di presentarlo esteticamente rimango spesso sorpresa dal risultato. È in questo scarto che avviene l’imprevisto, il mistero. Succedono le cose proprie dell’arte, che per me hanno una grande risonanza spirituale.
Il valore estetico delle tue opere viene amplificato dalla grazia con cui le concepisci e le consegni al pubblico. Tu stessa parli dei tuoi lavori come di una sorta di «denuncia in forma poetica». Tra l’altro la tua formazione è avvenuta anche sui libri di poesia e sui saggi di filosofia…
Forse nella mia vita ho studiato più la filosofia e la poesia che l’arte. Negli ultimi anni lo faccio meno perché mi sono accorta che la filosofia sta riversandosi con troppa prepotenza nell’arte, facendola diventare una specie di applicazione pratica delle teorie di alcuni. Io preferisco rischiare di dire sciocchezze piuttosto che dire cose perfettamente allineate al sistema. La poesia è la cosa in cui credo di più. Sono convinta che non sia possibile accettare la brutalità di alcune situazioni senza capirne la poeticità. È un po’ come il rapporto tra vita e morte o tra bene e male: sono concetti che non puoi separare. La poesia serve a non farsi terrorizzare dalla violenza, serve a diluirla e a non lasciarsene sopraffare.
Hai esposto i tuoi lavori in molti musei prestigiosi, hai vinto il Premio VAF nel 2019, sei stata la seconda donna artista a portare le tue opere nella Reggia di Versailles e sei stata nominata Ambasciatrice di Kaunas, capitale europea della cultura del 2022. Quale direzione sta imboccando la tua ricerca attuale e quali sono i tuoi progetti artistici attuali?
Il mio più recente impegno espositivo è stato una mostra presso la Galleria Prometeo di Milano. Per quanto riguarda la mia ricerca, al momento sto portando avanti un progetto che ho in mente da diversi anni ma a cui solo adesso sto dando concretezza. Con questo lavoro mi interessa capire come rendiamo monumentale quello che fino a ora è sempre stato concepito solo come privato. Si tratta di una visione più estesa di tematiche che fanno parte da sempre della mia indagine artistica. Mi sto anche dedicando a un progetto su uno stalker, legandomi a una vicenda vissuta in prima persona. Un lavoro che parla di minaccia e di resistenza creativa.