«Più che raccontare una storia, con i miei quadri partecipo a una storia, trasmetto dei sentimenti»: dichiara Cesare Lucchini nel film realizzato da Vito Robbiani sul pittore nato nel 1941 a Bellinzona, ripreso mentre lavora su più tele a parete nel suo atelier di Pregassona, durante il suo recente viaggio sull’isola di Lampedusa, nelle sale del Kunstmuseum o ancora fra i corridoi dell’Accademia di Brera. Lucchini infatti si diploma lì nei primi anni Sessanta, inseguendo la passione della pittura che lo anima fin da adolescente, non senza dubbi, come si deduce dalla lettera di Giorgio Morandi in risposta alla missiva inviata dalla madre di Lucchini all’insaputa del figlio per chiedere consiglio sull’opportunità di incamminarsi su questa via; il grande maestro bolognese risponde con poche righe di cordiale buon senso: «Non mi sono mai preso, e non mi sento di prendere, – scrive – la grave responsabilità di consigliare la continuazione o l’interruzione degli studi».
Lucchini si diploma con una tesi su Nicolas de Staël e non perde più la strada della pittura che da Milano, e dalla tradizione lombarda alla Morlotti del primo paesaggio informale (1962), lo porterà fino in Germania a vivere e lavorare fino al 2012 a Düsseldorf e a Colonia, dove finalmente s’immerge in quell’espressionismo nordico che è congeniale a un artista che ha sempre dichiarato di non avere interesse per la «bella forma» italiana. Certo è fondamentale conoscere la lezione dei grandi maestri del Rinascimento. Fra Picasso – il genio assoluto – e Braque, Lucchini si identifica in Braque, il pittore che può a volte raggiungere la genialità ma soltanto attraverso il lavoro, continuo e ostinato: «pittore operaio» lo definisce non a caso il suo gallerista londinese Ian Rosenberg, che racconta come sia stato colpito dal contrasto tra i soggetti dei dipinti – tragici o drammatici – e il cromatismo «ottimista», dalle tonalità chiare.
Fra i riferimenti dichiarati del pittore ticinese troviamo Rauschenberg (cfr. la serie di Atelier con la tecnica degli assemblage dove gli oggetti sono appiattiti sul dipinto), ma anche Grosz, Dix, Beckmann e ancora Emil Schumacher; si intravvede poi la vena esistenziale di Baselitz e Kiefer, che sfocia in quello che viene definito dai critici un «realismo effimero».
Una pittura non narrativa eppure ispirata anche all’attualità più bruciante, non figurativa nel senso stretto eppure legata indissolubilmente alla figura: guardando da lontano i suoi grandi dipinti e avvicinandosi d’improvviso appaiono sulla tela presenze che sembrano sospese in uno spazio indefinito, forse così come sono apparse al pittore stesso mentre abbozza contemporaneamente più tele. In particolare a partire dagli anni Novanta si delinea così la struttura compositiva che sarà ricorrente nella sua pittura: figure appena accennate, sovrastate da grandi masse di colore.
Ecco quindi per esempio nelle serie «Quel che resta…» o «Quel che rimane», che danno anche il titolo alla rassegna bernese, delinearsi corpi accasciati, figure ritte in piedi, profili di montagne (l’Etna come la montagna Saint-Victoire?), contorni di barconi vuoti e pezzi di filo spinato; si coglie con evidenza in queste ultimissime prove quella singolare coesistenza fra violenza e riservatezza, tragicità e delicatezza. Se si passano minuti davanti alle tele di Lucchini, emerge anche la complessa stratificazione di gestualità e tecniche diverse, dalla pennellata alla colata, dallo spray al dripping. «Quel che resta» dunque: e qui si intendono forse i residui di un processo alchemico in cui il pittore non distilla metalli preziosi, ma le sofferenze del suo tempo, di una storia attuale che vede spesso la caduta (altro titolo ricorrente) dell’umanità, la morte e la perdita in primo piano. Disegno, luce, colore: i suoi sono gli strumenti primari della pittura che in Cesare Lucchini ritrova la sua integrità morale.
Pittura astratta o figurativa? «Si tratta di un falso problema», risponde lucidamente Lucchini, «l’importante è fare pittura dal forte impatto espressivo». Un impatto espressivo nutrito dalla cronaca quotidiana e dagli eventi che hanno segnato la storia recente: dall’Apartheid agli sbarchi di immigrati africani a Lampedusa, dall’Olocausto alla catastrofe della BP nel Golfo del Messico. Eppure, anche quando si distingue un elicottero da guerra che si libra in volo sotto la pioggia, con un riferimento visivo alle sequenze di Apocalypse Now, la sua non è una pittura apocalittica, piuttosto di acuta nostalgia.
E in una pittura che ruota attorno sempre alle figure – simboliche come il cane randagio o esistenzialiste come un uccello malato – non può mancare l’attenzione al volto che si indovina in quelle che sono chiamate «quasi una testa», con quell’avverbio che dice tutto; un soggetto cominciato in atmosfere notturne dopo il trasferimento in Germania alla fine degli anni Ottanta e che corre per quasi tutta la sua pittura, attraversando anche le sezioni tematiche allestite dai curatori in un percorso che resta sempre fluido e mai scandito da rigide separazioni, così che il visitatore possa scivolare da un periodo creativo all’altro senza perdere le note basse di tutta la produzione lucchiniana.