Bibliografia

 

Gianni Celati, Il transito mite delle parole. Conversazioni e interviste 1974-2014, Quodlibet, Macerata, 2022.


Le parole miti di Gianni Celati

Raccolta  ◆  Conversazioni e interviste attorno allo scrittore e critico letterario italiano
/ 21.08.2023
di Manuel Rossello

All’inizio dei miei studi di letteratura italiana a Ginevra, da matricola ingenua qual ero, pensavo che gli scrittori contemporanei imprescindibili fossero Eco, Moravia, Buzzati, Ginzburg, Bassani, Cassola, Maraini, De Carlo… Invece scoprii non senza meraviglia che nel dipartimento d’italianistica vigeva tutt’altro canone: Bilenchi, Meneghello, Manganelli, Malerba, Celati, Biamonti, Ceronetti, Morante, Bufalino, Pontiggia, Arbasino, Vassalli, Consolo, Volponi… Allora erano tutti in attività. Ora sono tutti scomparsi, compreso Gianni Celati, che degli autori elencati è il più eccentrico e inclassificabile. Proprio per entrare nel mondo di questo affascinante scrittore e saggista è uscito un ampio volume, ll transito mite delle parole, a cura di Marco Belpoliti e Anna Stefi, che raccoglie un folto gruppo di sue interviste, dagli anni Settanta al 2014, anno della morte. La progressione temporale consente di seguirlo quasi passo dopo passo, dai primi testi espressionisti e stralunati (nelle Avventure di Guizzardi c’è una reminiscenza diretta delle novelle picaresche), agli anni del DAMS, fino alle successive, affascinanti «scritture documentaristiche» realizzate in collaborazione con Luigi Ghirri. Ma una parte non trascurabile delle oltre seicento pagine è dedicata alla sua battaglia per rivendicare uno spazio nel sistema letterario italiano, appannaggio quasi esclusivo dei tradizionali gruppi di potere.

Se in gioventù Calvino è stato il suo mentore e l’ha lanciato, le tappe fondamentali della sua vita sembrano tutte segnate dal caso. Perfino l’insegnamento a Bologna, dove fu un docente molto eterodosso, durò solo alcuni anni. Infatti nel libro non mancano gli strali contro gli eccessi del DAMS e contro il primato della semiotica, ossia il dogma attorno al quale era stato creato l’ateneo bolognese. E nel volume la semiotica viene sbeffeggiata a più riprese, ora ridotta a feticcio dissennato che sforna schemi e discorsi a caso, ora paragonata a un boccone indigesto che produce molta salivazione e poco altro. D’altronde Celati è sempre stato estraneo al principio di appartenenza, prioritario nell’ecosistema letterario italiano, in base al quale per avere successo occorre far parte di una cricca, di una loggia o una fazione. E in questo destino si è sempre sentito affratellato, anche per ragioni di stile, a scrittori come Tozzi, Campana, Delfini. Senza contare che tra i suoi modelli ci sono anzitutto l’Ariosto, da delibare sempre ad alta voce, e il nostro Robert Walser, anch’egli un solitario della letteratura.

Ma Celati non si è mai crogiolato nel risentimento dell’emarginato, perché i sentieri poco battuti che ha seguito si sono ogni volta cristallizzati in libri eccentrici e raffinati, come nei Narratori delle pianure, dove la sintassi si fa liquida e lo sguardo fotografico, o Verso la foce, diario di vagabondaggi lungo gli argini del Po, dove descrizioni e divagazioni alimentano un’immaginazione che tenta di recuperare i ritmi della narrazione orale. A mia conoscenza solo Guido Ceronetti è riuscito a raffigurare con altrettanta efficacia il delta del Po, questo territorio tra terra e acqua così vasto e così sconosciuto.

Forse il cuore del libro è costituito dall’elogio della novella tradizionale, con le sue cadenze orali e con il piacere quasi fisico di raccontare. Per essere efficace, infatti, la parola ha bisogno di un alveo rituale che la protegga e che ne valorizzi la sostanza fonica. Insomma, narrare come un cerimoniale. Ma queste caratteristiche sono state soppiantate dalla dittatura della trama «cinematografica» e dall’onnipresenza del climax che deve catturare il lettore, due tecniche peculiari del racconto moderno.

Tuttavia l’esortazione più vigorosa di questo intellettuale messo ai margini dalla cultura ufficiale è quella sull’urgenza di rimettersi a studiare la tradizione narrativa italiana più gloriosa e negletta, la letteratura cavalleresca. Perché di fronte a un capolavoro come l’Orlando furioso non possiamo ripetere la dissennata esclamazione d’Ippolito d’Este: «Messer Ludovico, dove avete mai trovate tante fanfaluche?».