Una parete piena di diavoli, in tutte le fogge e forme possibili ci accoglie nell’appartamento luganese della casa Anni 30 di Cito Steiger. Non hanno l’aria minacciosa però, perché in qualche modo ricalcano la vena ironica e divertita che ritroviamo anche nel sorriso del padrone di casa, sempre pronto al gioco di parole, alla battuta e alla freddura. Cito Steiger è stato forse il personaggio comico a lasciare il segno maggiore nella Svizzera di lingua italiana, e questo grazie a un’autoironia implacabile, a un dileggio altrui mai offensivo e a una profonda umanità, che si scorge soprattutto nel suo sguardo.
Cito-Juancito Steiger, alias Sciur Piantoni, o ancora Nuvitads da Coira, vive gli anni giovanili in una Lugano contraddistinta da un forte fermento culturale: tra gli anni 60 e 70, oltre al jazz sulla scena c’erano anche il rock, con gruppi come i Cani Sciolti e frange che ricordavano gli Indiani Metropolitani italiani, o il teatro, ad esempio la comparsa del Panzinis Zirkus, di cui Steiger faceva parte, gruppo di avanguardia teatrale, a quell’epoca unico in tutto il Ticino.
Cito Steiger, lei dunque viene da un humus culturale «alternativo».
Nel 1969 sono andato con alcuni amici all’École des Etudes Sociales di Ginevra per diventare animatore socioculturale. Era un’esperienza che nei quartieri di Ginevra funzionava, ma qui in Ticino, oltre a Molino Nuovo, di quartieri non ce n’erano. Una volta tornati in Ticino abbiamo proposto un’esperienza simile a quella ginevrina, ma l’allora DOS – Dipartimento opere sociali – ci disse di non avere spazio. Allora fondammo una compagnia teatrale, il Panzinis Zirkus.
Dove nasceva il nome Panzinis Zirkus?
Ginevra viveva il suo periodo brechtiano, e noi ci ispirammo a un burattino, dittatore del paese delle torte di Mahagonny, dall’opera Ascesa e caduta della città di Mahagonny di Brecht. Andammo avanti per qualche anno con il Panzinis, poi continuò Vania Luraschi, cambiando il nome in «Teatro Pan», dove «Pan» non sta per pan büter e confitüra, ma per il diminutivo di Panzini! Vania è andata avanti in quest’ottica creando poi un festival internazionale, il FIT.
Come è iniziata l’esperienza televisiva?
Con il Panzinis non si guadagnava molto, così ogni tanto facevo delle presenze in televisione per la trasmissione Top con Maristella e Bigio, dove mi occupavo di teatro per i ragazzi; più tardi nacque Buzz Fizz Quiz.
Un giorno un ospite musicale non poté partecipare, allora inventai il personaggio del Sciur Piantoni. Ne seguirono altri, come Gino Trampiglio, impersonato da Giorgio Thoeni o sua moglie Olivia Tremezzi, impersonata da me. Mi sono sempre divertito, anche se a volte è faticoso concentrarsi per ideare un personaggio, capire che carattere ha o come si veste. Bisogna fare la drammaturgia del personaggio proprio come in teatro. Da Milano arrivò quindi un «certo» Aldo Grasso per esaminare le trasmissioni per i ragazzi: disse che eravamo bravi, ma che il Piantoni doveva essere lasciato libero! Da quel momento potei muovermi liberamente, bastava che dicessi al regista dove sarei intervenuto, così che potesse gestire le luci. In fondo, ero regista di me stesso – senza offesa per i registi, ovviamente!
Si ispirava a qualcuno in particolare? Come nascevano i personaggi?
Il famoso Sciur Maestro ad esempio, era frutto di un’imitazione. Un giorno Angelo Frigerio, agronomo, si trovava in radio per parlare di vini, allora il mio collega Augusto Chollet mi chiese di fargli sentire come lo imitavo. Abbiamo quindi riproposto L’ora della terra: all’inizio alla radio facevo entrambi i personaggi, poi Mario Del Don prese il ruolo del contadino. Scrivevamo insieme tutti i testi, poi regolarmente andavamo fuori strada e improvvisavamo. Era bello lavorare con Mario, abbiamo perfino registrato dei blues.
Come ha imparato a scrivere?
Ho imparato a scrivere nel 1965, quando entrai in televisione grazie a un concorso per il servizio film: dopo avere visionato i film dovevo scriverne la trama per il «Radioprogramma», il giornale che presentava le trasmissioni. Ho così imparato a essere conciso… ma senza andare al circo! (sornione infila una battuta, NdR).
E nel caso della storica trasmissione satirica La Palmita?
Ero il responsabile dei testi, poiché non tutti erano professionisti. Si decideva cosa fare di settimana in settimana. Il produttore era Pedrazzetti, e alla regia Mauro Regazzoni si alternava con altri. La Palmita, che a un certo punto cambiò nome, diventando Ziuq, ossia Quiz al contrario, durò cinque anni, dal ’90 al ’95. Vi fu poi Siore e siori buonasera con il defunto Gianmario Arringa, una presa in giro del Quotidiano in cui proponevamo notizie finte.
Quindi l’hanno sempre chiamata a fare il ruolo del regista senza però accreditarla mai?
Mai! Ma non lo rimpiango.
Come ha imparato a fare ridere? Sempre che sia una cosa che si possa imparare…
Ho sempre avuto il gusto della battuta, vedo i difetti delle persone, le imito. Io ho cominciato con i burattini: a nove anni quando ricevetti i burattini rimasi a bocca aperta. Ero un bambino timido, ma da dietro il teatrino non mi si vedeva, così scoprii che potevo esprimermi attraverso i burattini. Più tardi a scuola imparai che si tratta di una tecnica sociale per insegnare ai bambini a disinibirsi.
Lei fa ridere gli altri, chi fa ridere lei invece?
Prima di tutti Totò. Ma anche tanti altri comici di oggi, come Crozza e Brignano, quelli che vengono dalla scuola di Gigi Proietti. I personaggi fatti in A me gli occhi, please sono indimenticabili. Amo Totò perché rappresenta le origini di tutti loro.
Il personaggio di Nuvitads come è nato?
Dalla riverenza che c’è sempre stata verso i Grigioni, che portava ad esempio la redazione del Regionale a sentirsi in colpa se non se ne parlava abbastanza. La storia delle previsioni del tempo nasce da mia mamma, che per farmi andare a scuola mi diceva «Levas sü», e quando le chiedevo che tempo che facesse, lei rispondeva: «Verd la fineschtra che ta vedat», che poi è diventato «Che temp che fas». A un certo punto dico «Ils temp e il cü, fan quel che vör lü». Per fare il Nuvitads avevo il volante usato da Clay Regazzoni nelle gare minori: me l’aveva portato il trovarobe, così potevo fare «Da Coira ves tüt, tüt».
Dunque, in testa ha un repertorio di voci? È questa la dotazione dell’attore?
Certo, devi avere un repertorio delle voci in testa. Ma a me viene naturale. Per la radio ho fatto Cavoli perduti, una radionovela quotidiana di 3 minuti: lì dovevo fare tutti i personaggi, botta e risposta (e qui improvvisa un dialogo tra un certo Barone Depliant, dal forte accento francese, e un ticinese, NdR).
È mai stato censurato?
Una volta ho preso in giro Papa Giovanni Paolo II parlando con accento polacco e mi hanno redarguito.
Non trova che nella nostra televisione manchi la satira?
Io la faccio per conto mio a casa. Ne ho fatta anche nel mio libro Gent, di cui vi parlo perché è un modo per aiutarmi a venderlo! Parlo di quello che mi circonda, della gente con i suoi difetti e con i suoi pregi, anche se alla fine è un pretesto per giocare sulla e con la lingua, quella parlata ovviamente!
L’imitazione tutto sommato non è un modo facile di fare satira? Anche un po’ bastardo forse?
Dipende come la fai, credo però che nella satira non si debba mai dimenticare il buon gusto. Quando imitavo il Sciur maestro non lo denigravo. Lui era un brav’uomo un po’ ingenuo, e avevo rispetto di questo. Se invece di mezzo c’erano i politici, gli facevamo dire quello che volevamo noi.
Alla radio ci piaceva prendere in giro gli altri programmi, così facevamo una parodia di Rete 2 con le spiegazioni di un musicologo che ogni tanto si sentiva russare. Non se la presero, perché erano contenti di essere citati. Abbiamo fatto anche i burattini per le cronache del governo: Mario Del Don ne aveva fatti di bellissimi, come quello del Maspoli. Andò a finire che tutti i politici volevano il loro burattino.
Ci parli ancora del suo libro Gent…
Faccio filastrocche, aforismi e poesie attraverso cui tiro fuori il mio vero pensiero, non quello da dare a un personaggio o da fare dire a un personaggio: qui parlo io. Si tratta di cose anche intime, dei miei genitori, dei miei amici morti, della morte stessa, ma lo faccio senza retorica e sempre con un certo distacco, seppur con benevolenza.
In questo libro ci sono pensieri comici, pensieri seri, sul mondo, sulla vita, sulla gente come me e anche sui me gent. Io sono cresciuto parlando dialetto, nonostante mi chiamassi Steiger. Mia nonna, quando qui si moriva di fame, emigrò con il marito in Argentina, lei trovò lavoro in un’hacienda come donna di casa, mentre il nonno faceva il muratore. Dopo dieci anni dovette tornare per i polmoni: l’aria là non le faceva bene. Mia madre è nata qui, e la nonna la chiamò Panchita, poverina, mentre a me diede il nome Juancito, ossia Giovannino. Immagino abbia deciso la nonna, poiché era il caporale della famiglia!
Aveva mai pensato di scrivere un libro?
Avevo già scritto delle pièce teatrali che non ho mai rappresentato tranne una, che ebbe un discreto successo in radio. Quando sono in giro, alla vista di qualcosa mi viene un’idea e la registro o la scrivo su un foglietto. Con gli anni i foglietti si sono ammucchiati, così li ho messi insieme. Non vorrei mai scrivere un romanzo perché, a parte quelli gialli, non mi piacciono. Scrivendo e rileggendomi però ho cominciato a capirmi, ho scoperto me stesso. Mi sono chiesto: «Ma io sono così?». Semplicemente, si impara a conoscersi. Penso a Zanni della Commedia dell’arte, lo stupidotto che diceva le grandi verità, come i giullari: ecco, io sono un po’ così. Non si può prendersi troppo sul serio.
Ci sarà un prossimo libro?
Certo, e sarà più libero. Sarà fuori di testa, mi occuperò della cultura del boccalino, ossia di quello che ha sempre sbagliato il turismo ticinese. Ci sarà molto humour nero!