È attualmente in cartellone al Luzerner Theater Il Castello di Barbablù di Béla Bartók, nella versione per piccola orchestra di Eberhard Kloke. Prima di allora, Bartók non aveva mai composto musica per il teatro. Si tratta di una coproduzione con il Lucerne Festival, in un’interessante messinscena di Anika Rutkofsky (scene e costumi di Uta Gruber-Ballehr) e per la direzione musicale di Jonathan Bloxham. Il mito di Barbablù, variamente e ripetutamente raccontato nel tempo, ha ispirato nei secoli numerosi poeti, scrittori, pittori e compositori e tra la fiaba di Charles Perrault e questo atto unico (libretto di Béla Balász, basato principalmente su Ariane et Barbe-Bleu di Maurice Maeterlink e Paul Dukas del 1907) ci passano tre secoli.
Nell’opera di Bartók non facilmente riducibile a questa o quella formula, agiscono due soli personaggi, ma anche il luogo stesso dell’azione, il castello, può considerarsi personaggio-protagonista, cosa che si capisce sin dal prologo declamato da Judith (interpretata da Camilla Meneses) mentre in palcoscenico si svolgono le ultime scene dell’opera. La storia di denso intrico simbolico e gravida di motivi psicologici si incentra sul personaggio complesso del Duca Barbablù (interpretato da Christian Tschelebiew), il quale vive solo e isolato nel suo castello ove invita donne che poi sposa e uccide spietatamente. La sua quarta moglie – che di nome fa sempre Judith ed è interpretata da Solenn’ Lavanant Linke – cerca di scoprire i segreti e le pieghe nascoste del suo animo: come Eva all’inizio dei tempi, come la moglie di Lot, come Elsa con Lohengrin, vuole sapere tutto di lui e lo tempesta di domande. Non solo con il suo amore, ma anche con la sua voglia di sapere, Judith, che è molto di più della donna fragile, devota e sempre pronta al sacrificio di fronte all’uomo forte che tutto decide, deve assolutamente capire la psiche dell’uomo che ha sposato, quasi fosse l’unico mezzo per capire anche sé stessa. Vuole perciò giungere all’anima di Barbablù e aprire tutte le porte del suo subconscio. Sette sono le porte misteriose (da Bartók magistralmente caratterizzate da soluzioni musicali diverse) che intende aprire per vedere che cosa nascondono, costi quel che costi, persino se dietro si celano risposte tutt’altro che comode e piacevoli, persino se dovrà poi, come Barbablù, scomparire nella notte.
Per la regista Anika Rutkowsky, il castello è un marchingegno, una macchina che riproduce il sistema Barbablù. Un sistema al lavoro da prima che il pubblico entri in teatro proprio per sottolineare la consuetudine di certe dinamiche destinate a ripetersi. Alcuni le accettano, altri meno e le denunciano, ma nessuno, fino a oggi è riuscito a fermare il sistema Barbablù. Nemmeno una donna disobbediente, curiosa, forte ed emancipata? Questa è l’annosa questione del mito incentrato sulla curiosità e sulla disobbedienza femminile, e il pubblico continuerà a porsela, anche assistendo a quest’opera dalla partitura così differenziata, densa di tensione e di invenzioni timbriche, condotta con polso fermo dal maestro Jonathan Bloxham alla guida della Luzerner Sinfonieorchester. Una partitura per grande orchestra che anche una compagine ridotta come questa illustra adeguatamente.
Anche sul versante vocale soltanto note positive: Christian Tschelebiew interpreta magistralmente Barbablù, carnefice e vittima di sé stesso e delle sue pulsioni. Solenn’ Lavanant Linke e Camilla Meneses, nell’interpretare le due diverse Judith, non sono da meno per espressività e potenza vocale. Grato ed entusiastico l’applauso del pubblico lucernese.