Le insicurezze stilistiche di Amy Macdonald

Per quanto meditato, il nuovo album della cantante scozzese non può evitare di deludere chi sperava in una virata meno commerciale
/ 13.03.2017
di Benedicta Froelich

Se è vero che l’industria discografica sforna con frequenza pressoché continua nuovi «fenomeni» musicali (immancabilmente presentati come esempi di assoluta genialità compositiva), non si può negare che, a volte, l’entusiasmo possa essere, per quanto prematuro, in parte giustificabile – almeno se stiamo parlando di performer dotati di voci particolarmente interessanti, come la giovane cantante scozzese Amy Macdonald, assurta all’onore delle classifiche nel 2007 con il tormentone radiofonico This Is the Life: un successo forse troppo travolgente e difficile da replicare, come dimostra il fatto che i due album pubblicati dall’artista dopo l’esordio (rispettivamente nel 2010 e 2012) sono passati piuttosto sotto silenzio fuori dal Regno Unito.

La pressione alla quale un debutto di grande risonanza sottopone qualsiasi giovane musicista ha senz’altro avuto il suo peso sulla produzione più recente della cantautrice; ciononostante, Amy ha mostrato una certa maturità, in quanto si è (giustamente) presa il proprio tempo per la realizzazione del quarto, attesissimo lavoro.

Così, dopo oltre quattro anni di silenzio discografico – durante i quali la sua fama sembrava essere stata momentaneamente soppiantata dal polverone mediatico che ha circondato altri nomi del pop-rock femminile quali Adele e Florence Welch – la performer ha dimostrato di aver conservato l’affetto del suo ampio e fedele pubblico, subito pronto a inneggiare al capolavoro alla pubblicazione di questo nuovo Under Stars.

Purtroppo, però, la prima cosa che risalta in questo ritorno sulle scene è il fatto che la Macdonald non è risultata immune alla medesima «smania di uniformazione» che già aveva colpito la collega Adele: infatti, Amy – che agli esordi, appena ventenne, aveva costituito un classico esempio di bella e simpatica ragazzona scozzese un po’ in carne – si è presto ritrovata sottoposta a un totale restyling, tanto da apparire, oggi più che mai, come una snella pin-up dall’aria aggressiva e la faccia troppo spigolosa, provvista di tatuaggi pacchiani e vistoso make-up. Fortunatamente, ciò non altera il fatto che la voce corposa e seducente di cui la Macdonald è dotata sia caratterizzata da un timbro che, in termini interpretativi, è senza dubbio uno dei più interessanti offerti dalla scena femminile degli ultimi anni; anche per questo, è un vero peccato constatare come tale dono rimanga perlopiù al servizio di canzoni che, per quanto gradevoli, faticano a ergersi al di sopra di un buon pop orecchiabile di medio livello.

Ecco quindi che anche il singolo di lancio del nuovo album, Dream On, costituisce un ideale esempio di rock easy listening talmente amabile e accattivante da lasciar presagire un successo pressoché garantito; per contro, Under Stars, la title track del CD, suona come una via di mezzo tra una canzone d’amore e una sorta di ottimistico inno all’emancipazione – e, forse per questo, risulta a tratti un po’ troppo didattica, finendo per rivelarsi un’occasione in parte perduta.

Questa sorta di «calo di tensione» si riscontra purtroppo anche in altri brani, apparentemente concepiti quasi come semplici riempitivi – tra cui lo scialbo Automatic, pezzo uptempo somigliante ad almeno altre trenta canzoni pop incise negli ultimi vent’anni dagli artisti più disparati. Per fortuna, Under Stars offre anche tracce come la grintosa Feed My Fire, un ottimo esempio di canzone rock incentrata sulla potenza devastante del desiderio fisico, che, seppur non originalissima, permette alle capacità interpretative di Amy di brillare in tutta la loro versatilità. Lo stesso si può dire di un brano atipico come The Leap of Faith, non a caso l’unica «topical song» dell’intero CD, ispirata al referendum per l’indipendenza scozzese svoltosi nel 2014 (la Macdonald era un’ardente sostenitrice del «sì»). Forse meno efficace la cavalcata rock Prepare To Fall, la quale, sebbene non esattamente memorabile, resta comunque abbastanza mossa e piacevole da poter entusiasmare i fan più sfegatati dell’artista.

Tuttavia, è quando Amy «torna alle origini», ovvero alle radici del proprio background musicale, che le cose si fanno davvero interessanti, come dimostra Down By the Water, classica ballata nella scia della tradizione folk angloamericana (e, come tale, decisamente un gradino sopra il resto della tracklist). Il che ci porta a riflettere sull’evoluzione che la Macdonald potrebbe dare alla propria musica, se solo decidesse di allontanarsi un po’ dal taglio alquanto commerciale conferito alla maggior parte del suo lavoro per concentrarsi piuttosto su quell’eredità musicale anglo-scozzese che è, in realtà, parte integrante della sua formazione (come dimostra, del resto, il peculiare stile vocale di Amy).

In altre parole, sovvertire la formula finora adottata potrebbe dimostrarsi salvifico per un’artista dell’età e determinazione della Macdonald; pertanto, possiamo solo sperare che il futuro possa vederla trovare in sé il coraggio necessario per compiere un simile passo.