L’imperversare della pandemia da Covid-19 ha dato vita a una fioritura, nella stampa internazionale scritta e parlata, di riferimenti a epidemie del passato e alle loro descrizioni letterarie. Negli ambienti di lingua e cultura italiana si sono richiamate soprattutto la peste di Firenze del 1348, che fa da cornice al Decameron del Boccaccio, e quella di Milano del 1630, descritta in alcuni capitoli dei Promessi sposi manzoniani. Non sono mancate tuttavia incursioni in altre letterature: dal Diario dell’anno della peste di Daniel Defoe (1722), che descrive la pestilenza che colpì Londra nel 1665, alla Peste di Albert Camus (1947), dove si narra dell’immaginaria pestilenza dilagante nella città algerina di Orano, fino alle pesti fantascientifiche immaginate da alcuni romanzieri del secondo Novecento: così, nell’Ombra dello scorpione (1990) Stephen King immagina che un virus, sfuggito da un laboratorio, falcidii gran parte della popolazione mondiale (il pensiero corre alle accuse, rivolte da taluni alla Cina, di essere responsabile di qualcosa del genere per la diffusione del Coronavirus). Lo scopo delle pagine che seguono è di risalire per così dire agli archetipi, mostrando come le descrizioni di epidemie siano molto antiche nella letteratura occidentale e presentino alcune caratteristiche ricorrenti, poi parzialmente ereditate dalle moderne letterature.
Da Omero a Sofocle
Il primo accenno a una sorta di moria dilagante all’interno di una popolazione si trova nell’Iliade omerica, il più antico poema a noi pervenuto della letteratura occidentale (VIII secolo a.C.). Proprio all’inizio del poema, leggiamo che «il figlio di Zeus e di Latona» (cioè Apollo) «irato col re» (Agamennone) «mala peste fe’ nascer nel campo, la gente moriva» (Iliade, I, 9-10, tr. di Rosa Calzecchi Onesti).
Il termine usato nell’originale greco è noûsos, forma ionica per nósos, «malattia», che sopravvive come prefisso noso – in parole come «nosocomio».La causa di questa moria diffusa nell’esercito acheo a Troia è individuata nel risentimento del dio Apollo nei confronti del re Agamennone, colpevole di non aver accettato la liberazione e la restituzione, dietro riscatto, della figlia Criseide, precedentemente fatta prigioniera, al sacerdote Crise – come diffusamente spiegato nei versi successivi.
La propagazione del noûsos è operata dal dio in persona, che, sceso dall’Olimpo, scaglia le sue frecce nell’accampamento acheo (vv. 43-52). Si vedano in particolare i vv. 50-52:
«I muli colpiva in principio e i cani veloci, / ma poi mirando sugli uomini la freccia acuta / lanciava; e di continuo le pire dei morti ardevano, fitte». (tr. cit.).
Nonostante il poeta impieghi il sostantivo noûsos si tratta dunque, più che di una pestilenza, di una strage all’arma bianca, a meno di accogliere l’interpretazione razionalistica di Ammiano Marcellino (Storie, XIX, 4,2-3), secondo il quale i dardi di Apollo simboleggiano i raggi infuocati del sole (col quale Apollo era comunemente identificato) e dunque la moria sarebbe stata causata dall’eccessiva calura e siccità. In ogni caso, nel passo omerico sono presenti alcuni elementi che caratterizzeranno successive descrizioni di epidemie:
– la moria colpisce anche gli animali;
– la sottolineatura del gran numero di cadaveri;
– la moria è concepita come punizione divina.
Una vera e propria pestilenza è quella descritta nella parte iniziale dell’Edipo re di Sofocle, probabilmente scritto e rappresentato tra il 429 e il 425 a.C. Nel prologo della tragedia, che si svolge a Tebe, un vecchio sacerdote, rispondendo alla domanda di Edipo, re della città, sul perché dell’affollarsi agli altari di sacerdoti e popolo, così risponde: «La città, lo vedi tu stesso, è come sbattuta tra i flutti, e più non può sollevare il capo dalla mortale tempesta: periscono, ancora chiusi nei calici, i frutti della terra; periscono le mandre dei bovi alla pastura; perisce nei vani parti delle donne la semenza dei figli non nati. E il dio del fuoco, il dio della febbre, la pestilenza nemica, si avventa sulla città e la devasta; e le case dei Cadmei si svuotano, e le nere vie dell’Ade si riempiono di gemiti e di lamenti». (Edipo re, 22-30, trad. di Manara Valgimigli).
Dopo l’iniziale metafora della tempesta – frequente in un popolo di marinai come i Greci per indicare le sciagure – di cui si sottolinea la letalità, l’autore ricorre al termine specifico di «pestilenza» (loimós nel testo greco, v. 28), utilizzandolo però come apposizione di «il dio del fuoco, il dio della febbre», personificazione icastica della pestilenza stessa. Può essere interessante notare che «il dio del fuoco, il dio della febbre» è un’efficace amplificazione esegetica, dovuta al traduttore, del testo greco, che dice semplicemente «il dio portatore del fuoco» (ho pórphyros theós, v. 27). In effetti, la febbre era il primo sintomo della peste che colpì Atene nel 430, secondo quanto afferma Tucidide (II, 49) e, se è corretta la datazione 429-425 per la composizione della tragedia, accolta dalla maggior parte degli studiosi, è possibile che Sofocle, per la sua descrizione della pestilenza, abbia tratto spunto dalla realtà storica della peste del 430 e forse addirittura dalla descrizione che ne fa Tucidide (cfr. più avanti).
La triplice anafora del verbo «perire» (che nell’originale greco ricorre solo due volte) evidenzia come l’epidemia non riguardi solo gli umani, ma coinvolga anche la vegetazione e gli animali. Il passo si chiude ponendo l’accento sull’elevato tasso di mortalità fra i Tebani («Cadmei»: vv. 29-30). La descrizione della pestilenza che affligge Tebe ritorna, in forma più dettagliata, nella parodo (vv. 151-215), il canto d’ingresso del coro, composto dai notabili della città. Esso ha la forma di una preghiera che i coreuti rivolgono alle massime divinità olimpiche.
Ne propongo di seguito i vv. 159-188:
Antistrofe I: «Te per prima invoco, figlia di Zeus, Atena immortale; e te, Artemide sorella che questa terra proteggi e qui nel cerchio dell’agorà siedi su trono di gloria; e te Febo Apollo che da lontano lanci le tue saette: ioh ioh ioh, tutti tre siatemi presenti, scacciate il morbo mortale. Se già altra volta, la peste di prima, il flagello di fuoco che si era avventato sulla città, voi disperdeste lontano, deh anche ora accorrete».
Strofe II: «Innumerevoli mali io patisco. Preso è dal contagio il popolo tutto: arma nessuna d’intelligenza vale a difesa. Frutto non cresce più dalla terra ferace; dai parti non hanno sollievo di loro doglie le donne. Cadono gli uni sugli altri, e tu li vedi che, come stormi di alati, per l’impeto del male che si appiglia più veloce del fuoco, traggono alle rive del dio occidentale».
Antistrofe II: «Di questi morti, che la città più non novera, la città perisce. Giacciono essi al suolo, senza destare pietà e senza compianto, portatori di morte essi stessi. E le giovani spose e le madri canute, qua e là sui gradini degli altari, piangono e supplicano fine a così luttuoso travaglio. Limpido suona il peana e concordi risuonano voci di lamento. Per tutto questo, o aurea figlia di Zeus, mandaci un aiuto che riporti il sereno». (Edipo re, 159-188, trad. cit.)
Nell’antistrofe I le tre divinità sono invocate come un «baluardo contro la morte»: è questo il significato dell’agg. alexímoroi del v. 163, risolto dal Valgimigli in un’esplicita richiesta di aiuto («scacciate il morbo mortale»). Con «la peste di prima, ecc.» si allude alla Sfinge, da cui Edipo stesso aveva liberato la città. L’aggettivo «innumerevoli», collocato in posizione enfatica all’inizio della strofe II, pone l’accento sul dilagare inarrestabile dell’epidemia, col conseguente affollarsi di cadaveri prima nelle vie della città e poi all’ingresso dell’Ade (a cui allude l’espressione «alle rive del dio occidentale» della strofe II).
Con parole di sconforto il coro constata l’incapacità dell’intelligenza umana (che Sofocle aveva esaltato in un famoso corale dell’Antigone) di escogitare un rimedio contro la pestilenza: «non c’è arma d’intelligenza con cui difendersi» (vv. 170-171). Analogamente Tucidide (II, 47, 4) osserva che non solo la medicina, ma «nessun’altra arte umana» (álle anthropeía téchne oudemía) era in grado di curare il male. Poiché Tucidide stesso afferma nel proemio della sua opera (I, 1) di aver cominciato a comporre la storia della guerra del Peloponneso «subito, non appena essa scoppiò» (cioè nel 431 a.C.), non è forse azzardato pensare a un legame di interdipendenza dei due passi.
L’elevato tasso di mortalità e il conseguente accumulo di cadaveri per le strade è nuovamente sottolineato all’apertura dell’antistrofe II, dove ritorna, nel testo greco (v. 179), l’agg. anárithmos, «innumerevole», già impiegato al v. 167. Ma qui si aggiunge un altro dettaglio: il venir meno della pietà nei confronti dei defunti, che la situazione di emergenza impediva di onorare con i consueti riti funebri. È un particolare che ricorre anche in Tucidide e diventerà un luogo comune nelle descrizioni di pestilenze.
Le epidemie nei classici
Letteratura 1 - Molti autori greci e latini hanno raccontato le emergenze sanitarie dell’antichità (Prima parte)
/ 09.11.2020
di Elio Marinoni
di Elio Marinoni