«Lo scrittore James Joyce, nato nello stesso anno di Robert Coombes, nel suo racconto Un incontro scrisse dei libriccini da quattro soldi che circolavano in segreto nelle scuole di Dublino. Il narratore di Joyce ricorda come fosse affascinato dalle vicende ambientate nel Selvaggio West e dai polizieschi in cui si leggeva di “belle ragazze fiere e scapigliate”. L’insegnante del ragazzo rimprovera i suoi studenti di quelle letture squallide ma, non appena “libero da questa influenza moderatrice” – ricorda il narratore – mi riprendeva la sete di sensazioni violente e di un’evasione che solo quelle cronache di disordine parevano offrirmi».
«Benedetto e caro è il giorno in cui ho comperato questo libro», verrebbe da dire in prima battuta. Poi, con ragionamento e piglio più rigorosamente semiotico, la seconda sensazione che si fa strada dopo avere chiuso con un sospiro le quasi trecento pagine senza le note di questo Il ragazzo cattivo di Kate Summerscale, avanza chiarissima e finalmente esplicita una certezza. La certezza della profonda differenza che i censori degli anglicismi nell’italiano tendono a definire una manieristica abitudine alla moda, la differenza tra l’italiana narrazione da una parte e lo storytelling della tradizione anglosassone dall’altra. La storia del ragazzino Robert Coombes, che alla fine del diciannovesimo secolo uccide la madre con un colpo di pugnale al cuore e la vicenda degli anni e dei decenni che ne seguirono e che ne fecero una persona degna della stima e dell’amore senza condizioni di chi le stava vicino, la storia di questo ragazzino sostanzia in modo esemplare la probabile superiorità di quella tradizione letteraria, alta sopra tutte le altre.
Romanzo con le note, come si è appena detto. Ricostruzione di un fatto di cronaca nera che scosse insieme ad altri episodi analoghi il quartiere popolare londinese di Plaistow e i fumosi e malsani dintorni dei cantieri navali di West Ham. Sono una trentina e in corpo minore le pagine con i rinvii alle fonti che hanno aiutato la scrittrice nel ricostruire una storia complessa che altrimenti si sarebbe asciugata su quel terribile gesto iniziale e che invece permettono al lettore di sapere e di appassionarsi; di seguire quel ragazzino in un istituto criminale, poi nella Salvation Army, poi come valente soldato della Prima guerra mondiale, poi ancora come sapiente premuroso educatore di un ulteriore ragazzino nel Nuovo Galles del Sud, Australia. Testimonianze al processo penale, spogli di decine tra giornali e periodici dell’epoca, testimonianze dirette, lettere da vari fronti di guerra, riferimenti letterari, trattati scientifici, bibliografie specialistiche, molto altro.
Ad attraversare una di suo già tormentata fabula (l’intreccio è impeccabile, e come racchiuso tra un prologo incomprensibile e sciolto solo nelle ultime pagine), tutta una serie di filoni e rivoli: informazioni generose su come si tenevano i processi in quegli anni, su come ne parlava la stampa, sulle condizioni di detenzione nelle case di cura criminali, il fronte bellico in Turchia, le letture degli adolescenti negli anni del delitto del giovane Coombes, il lavoro dei portuali e degli impiegati nelle infernali caldaie delle navi. Poi, sorge come una specie di «metatema» e occupa quasi un capitolo intero la storia di un filone letterario del tempo, tanto apprezzato dai ragazzini quanto ritenuto di grande danno per le loro menti acerbe. «Uno dei sintomi era l’amore per la letteratura da quattro soldi: verso i dodici anni molti ragazzi venivano colti da una “mania per la lettura” e nel loro desiderio di “sentirsi smuovere dentro” cercavano la “letteratura d’effetto”. Quel genere narrativo li segnava in maniera subdola, fornendo loro un mondo fantastico e pieno di ombre». È una fortuna, insomma, incontrare un romanzo come questo.