È il più occidentale fra i laghi delle Prealpi italiane, poco più di 18 chilometri quadrati: si chiama lago Cusio, ma è noto come lago d’Orta, dal nome del borgo medievale che sorge sulla sponda orientale, Orta San Giulio, località dominata dal Sacro Monte, con venti cappelle affrescate dal Morazzone, e di fronte l’isola di San Giulio, dove sorge l’omonima basilica, gioiello del romanico novarese, e dove Gianni Rodari, il grande scrittore per l’infanzia, originario di Omegna, ha ambientato uno dei suoi più famosi racconti, Il barone Lamberto.
Fra coloro che hanno scelto di vivere in questi paesaggi, figura anche il pittore Antonio Calderara (1903-1978) che ha vissuto quasi come un asceta per decenni nella residenza di famiglia secentesca di Vacciago di Ameno; una figura singolare nel panorama artistico italiano, conosciuto più all’estero che in patria, e noto fra gli addetti ai lavori prima che al grande pubblico. Ingegnere mancato, si dedica fin da giovanissimo alla sua passione (il primo olio è del 1915), la pittura, appoggiato dal padre. La sua prima fase è figurativa, ascrivibile alla corrente del così detto Realismo magico – con ritratti e interni che ricordano le atmosfere di Casorati, ma anche Seurat e paesaggi metafisici alla De Chirico e Carrà. Ma i suoi paesaggi con il tempo si fanno sempre più rarefatti, luminosi, essenziali, costituiti da forme fondamentali: l’orizzonte del lago d’Orta si riduce progressivamente a linee e rettangoli. Un processo su cui ha influito la scoperta delle pitture di Mondrian.
Nel 1958 traccia la sua ultima linea curva, come annota lui stesso in un testo autobiografico; una scelta che segna il passaggio definitivo all’astrazione geometrica. Una svolta artistica, ma anche esistenziale, che gli costa l’isolamento e l’incomprensione, come lui stesso scrive: «Dipingere rettangoli, quadrati, righe, che non ambiscono a essere pittura geometrica, ma che vogliono invece essere rappresentazione della misura umana in uno spazio di luce, è un impegno, una risoluzione che, particolarmente in Italia, offre la più grande incomprensione, non solo da parte dei più, ma anche di una certa critica qualificata. Le mie nuove aspirazioni mi allontanano dagli amici pittori, i pochi compratori dei miei quadri; le mie nuove pitture sono rifiutate alle esposizioni».
Un isolamento dal quale uscirà grazie anche all’interessamento del pittore brasiliano Almir Mavignier che nel 1960 porterà due piccoli quadri di Calderara in Germania per convincere un gallerista di Ulm ad organizzare una mostra sul pittore italiano. Da lì comincia la sua notorietà internazionale, come esponente dell’arte concreta: compare fra gli autori della mostra di Max Bill, Konkrete Kunst all’Helmaus di Zurigo; nel 1966 è fra i pittori scelti da Harald Szeemann per l’esposizione Weiss auf Weiss alla Kunsthalle di Berna. Nel 1969 segue una grande retrospettiva curata da Jean Christophe Amman al Kunstmuseum di Lucerna. Le sue composizioni sono vicine a quelle di Bill, Lohse, Albers.
Nomi che insieme ad altri – Fontana, Manzoni, Morellet, Dadamaino, Klein, Colombo,… – si ritrovano fra gli autori delle 271 opere custodite nella collezione personale del pittore, costituita nel tempo grazie agli scambi con artisti che stimava o con i quali aveva stretto amicizia e che ospitava nella casa di Vacciago. Una particolarità di questa raffinata collezione risiede nel formato delle opere scelte, per lo più identico a quello delle tele di Calderara, sempre di piccola taglia, salvo eccezioni: una selezione che ben rappresenta le molteplici declinazioni dell’arte astratta e concreta .
Il filo conduttore sembra essere la ricerca di quella pittura di luce e di superamento del limite e della finitudine, che caratterizza tutta l’opera del pittore di Vacciago che aveva perseguito con abnegazione «morandiana» i suoi obiettivi. «Tutta la mia vita è pittura, non un disperdimento, non un altro interesse. Vorrei dipingere il niente che sia tutto, il silenzio, la luce. Vorrei dipingere l’infinito»