Lasciarsi andare all’incanto

Giornate di Soletta 2 - Scoprire nuovi mondi attraverso il cinema
/ 01.02.2021
di Muriel Del Don

A cosa serve il cinema e più in generale l’arte? Quale funzione svolge all’interno di quel marasma eterogeneo che chiamiamo società? La risposta non è ovviamente univoca e ci si potrebbe persino chiedere se ha ancora senso parlare d’arte in un mondo dove certi blogger sono più conosciuti dello stesso Andy Warhol (e il loro momento di gloria ha superato di gran lunga i 15 minuti). Parentesi chiusa, se considerate nella loro vera essenza le opere d’arte e i film hanno per fortuna ancora il potere di aprire la mente verso nuovi mondi, verso un’alterità rigenerante che dà voce a chi spesso ne è privato.

Molti film presentati alle Giornate di Soletta hanno giustamente scelto di seguire questo cammino, incoraggiando il pubblico ad aprirsi all’«altro» inteso come riflesso di sé e non certo come pericolosa alterità da combattere. Tra questi film ritroviamo il poetico e misterioso Amor Fati della giovane regista portoghese Cláudia Varejão, raccolta improbabile di haiku cinematografici abitati da personaggi tanto inafferrabili quanto affascinanti. Amor Fati è un film che cattura lo sguardo dal primo fotogramma. Grazie a un montaggio sapientemente dosato, in apparenza discreto ma potente nel suo mettere in relazione mondi spesso molto distanti tra loro, il terzo lungometraggio di Varejão permette di addentrarsi tra le sorprendenti mura di quel palazzo incantato che chiamiamo «amore».

Lo sguardo della regista si posa su una serie di personaggi uniti da un legame affettivo che va ben oltre le parole. Il concetto di «dolce metà» ingloba nel caso di Amor Fati una serie eterogenea di relazioni che vanno da quella amorosa, famigliare o canina fino ad arrivare a quella forse più sorprendente che unisce un musicista al suo strumento. Evidentemente il film va ben oltre i cliché legati al concetto di «coppia» eterosessuale, proponendo allo spettatore di indagare una serie molto vasta di possibilità: due ragazzi/e gender fluid, due donne anziane che condividono il loro quotidiano, una sorta di santo eremita e il suo cavallo.

Nella stessa vena poetica e intensa ritroviamo Sapelo del regista zurighese Nick Brandestini, un ritratto toccante e pieno di verità di una comunità sperduta su un’isola della Georgia (USA). Il pubblico ha modo di perdersi tra le verdeggianti pianure di Sapelo guidato dalla voce intensa e profonda di Cornelia Walker Bailey, sorta di nume tutelare dell’isola dalle virtù lenitive. Con i suoi film, Brandestini cerca da sempre di mettere in evidenza le devianze rispetto alla norma, i luoghi e le comunità che hanno deciso di utilizzare la loro storia e il loro passato come armi contro l’omologazione e il consumismo.

Costantemente in bilico tra passato e presente, i trentacinque abitanti di Sapelo cercano di difendere la loro isola coscienti del pericolo di una gentrificazione che avanza a grandi passi. Sincero e intransigente, il film parla dell’umanità in tutta la sua crudele bellezza e magica complessità. Grazie a Sapelo Brandestini ci permette di osservare il mondo liberi dal razionalismo opprimente che domina il nostro quotidiano.

Decisamente più lineare, ma non per questo meno stuzzicante, è l’ultima fatica di Jean Stéphane Bron Cinq nouvelles du cerveau. Cosa diventerà l’umanità quando le macchine (e l’intelligenza artificiale) si saranno impossessate del mondo? Quali sono i limiti etici della scienza? Bron ci invita a confrontarci con cinque personaggi anticonvenzionali che hanno deciso di affrontare queste problematiche di petto, facendo della scienza il loro credo. Quello che sorprende del film di Bron è l’umanità che si nasconde dietro a «cervelloni» che nell’immaginario collettivo sono privi di anima. Un tuffo in un futuro ipertecnologico forse non così lontano che in questo periodo delicato risuona in modo ancora più forte.