L’ascesa delle registe

Con questo articolo su Ursula Meier iniziamo una serie dedicata alle registe che si stanno affermando nella settima arte
/ 07.11.2022
di Nicola Mazzi

La Francia ha uno dei tassi più elevati di registe. È emerso durante l’ultimo Festival di Cannes. Siamo attorno al 24%, un quarto del totale. E soprattutto, da qualche anno, la cifra è in continua ascesa. Percentuale più alta se prendiamo in considerazione tutta la filiera cinematografica con un tasso di donne occupate del 42%. Un mondo che quindi sta perdendo la classica connotazione maschile, ciononostante ancora significativa nelle statistiche complessive: basti ricordare che solo il 7% dei 250 film di maggior successo economico di tutti i tempi è stato diretto da una donna e che solo tre donne, nella storia, hanno vinto un Oscar per la miglior regia: Kathryn Bigelow con The Hurt Locker (2010), Chloe Zaho per Nomadland (2021) e Jane Campion per Il potere del cane (2022).

Partendo da queste brevi considerazioni iniziamo una serie dedicata alle registe che hanno un approccio particolare e che si stanno facendo strada nella settima arte. Autrici di tutto il mondo che hanno qualcosa da dire e soprattutto da mostrare al pubblico e che noi cercheremo di presentare attraverso le loro opere.

Ad avviare questa nuova rassegna è Ursula Meier (nella foto), realizzatrice franco-svizzera tra le più apprezzate. Attiva, con i primi cortometraggi già dalla fine degli anni 90 è nel 2008 che si fa conoscere dalla critica e dal grande pubblico grazie a Home (presentato a Cannes nella Semaine de la critique) con Isabelle Huppert. Un film sorprendente dove i corpi e l’asfalto si mescolano a tappeti sonori diegetici (il continuo passaggio dei veicoli e la musica che ascoltano i protagonisti), per creare paesaggi originali e inaspettati. La storia di una famiglia che vive vicino a un’autostrada e che si isola sempre di più in un climax claustrofobico, violento e senza ritorno è descritta da vicino (la camera raramente osa abbandonarli). Un’opera chiaramente metaforica sul posto del mondo che ognuno di noi deve trovare, dove il difficile passato della famiglia e in particolare della madre non viene esplicitato ma si intuisce. E dove il futuro è tutto da costruire, mattone dopo mattone. E dove solo il presente sfugge, cambia, sconvolge.

Un presente che è lotta per la sopravvivenza in Sister, il secondo lavoro di Ursula Meier (2012 e vincitore dell’Orso d’argento a Berlino) con una giovanissima Léa Seydoux. Protagonisti due fratelli che, appunto, cercano di sopravvivere tra piccole espedienti, furtarelli e furbizie tra le innevate montagne vallesane. Anche qui si parla di legami famigliari difficili e con un passato mai palesato. Anche qui il corpo (molto coperto dagli indumenti da sci o scoperto quando si lavano i panni) torna prepotente al centro della scena. E come in Home il luogo non è mai solo una location, ma ha anche una sua forza narrativa, un senso all’interno della storia raccontata. L’importanza del legame tra l’uomo e il paesaggio e la dimensione verticale di questo film (la montagna e la pianura) si relaziona e si contrappone a quella orizzontale del film precedente. Il ragazzino cerca di elevarsi socialmente, economicamente e fisicamente in uno spazio incontaminato bello e ricco, da una pianura desolata, morta e fangosa.

Dopo dieci anni, ecco il nuovo lavoro: La Ligne (2022), presentato quest’anno a Berlino. La regista approfondisce i «suoi» temi legati ai difficili rapporti famigliari, al corpo come luogo su cui avviene il conflitto e, in definitiva, al posto nel mondo da trovare. Questa volta il conflitto è tra la figlia e la madre, ex cantante che ha abbandonato la carriera per i figli. Ambientato ancora nella pianura vallesana, il riavvicinamento tra madre e figlia (come sempre non si conoscono i fatti scatenanti) avviene dopo un lungo percorso nel quale, la linea (i cento metri di distanza a cui deve stare la figlia violenta) è disegnata in terra dalla sorella minore. Un limite che viene prima accettato malvolentieri, poi compreso e che servirà alla riconciliazione.

In tutte le opere di Ursula Meier il passato resta oscuro, il presente è un percorso da effettuare per salvarsi e il futuro è una speranza di ripartenza. Un viaggio che i protagonisti effettuano in un luogo preciso, funzionale e nel quale il corpo è il veicolo sul quale il tempo mostra i segni delle varie stagioni della vita.