Ammettiamolo, il digitale ci fa paura. Non appena sentiamo quei nomi – intelligenza artificiale, robot – ci prende l’ansia. Il timore che le «macchine» ci superino, ci assoggettino. Ogni film sul tema – da Metropolis di Fritz Lang a Terminator – ci parla di questi sacri terrori.
Per questo la mostra ora aperta a Lipsia, e curata da Richard Castelli, massimo esperto di Digital Art, è un evento da non mancare. «Volevo spiazzare il visitatore e mostrare come oggi l’arte digitale si muova su più piani, creando una grande, ibrida famiglia di posizioni artistiche», spiega Castelli.
Non è un caso dunque se la mostra si intitola Dimensions e, sino al prossimo 9 luglio, espone in una vecchia fabbrica di macchinari a Lipsia, la Pittlerwerke, opere di 60 artisti. Un’occasione per abbattere le nostre «paure» e scoprire, in tutte le combinazioni e finezze ipertecnologiche le «dimensioni» dell’arte digitale. A partire dalle filigrane, quasi trasparenti sculture di luce e nylon di Ivana Franke, con cui apre la mostra a Lipsia.
«Mi interessava il rapporto fra logica matematica, algoritmi e figure nello spazio», spiega l’artista croata, presentandoci le sue delicatissime strutture di luce, create nei minimi dettagli geometrici al computer. C’è anche un riferimento «alle lucciole scomparse di cui parlava Pier Paolo Pasolini nelle mie opere», continua Franke. Opere che, come lucciole digitali, cambiano pelle e colore non appena ci spostiamo. Nel tentativo di toglierci le nostre fobie per l’arte «fatta al computer», Castelli ha dato alla mostra il sottotitolo: Digital Art since 1859. È l’anno in cui Francois Willème allestì nel suo atelier 24 apparecchi fotografici, fotografando i suoi modelli da altrettante angolazioni per creare le sue incredibili foto-sculture. «In questo modo Willème è all’origine della nostra stampante digitale o del moderno 3D-Scan», dice orgoglioso Castelli. La mostra pullula di colonnine-smart. Alla base hanno un QR-Code da fotografare e, non appena piazzi il telefonino sul loro piedistallo, ecco comparire come per miracolo le «sculture digitali» sintetizzate da vari artisti (e tecnici). Sul mio cellulare ho conservato la «statuetta digitale» di Francois Willème, con il suo lungo pizzo, i capelli lunghi e il giaccone da artista.
Nel così fluido universo Digital gli artisti rielaborano al computer non solo mille creature, video o avatar che siano, ma si divertono anche ad inventarsi strani «modelli scientifici» e stranissime «creature viventi». Come le meravigliose «Reverse Phylogenesis» che Golnaz Behrouznia & Dominque Peysson hanno riprogettato al computer costruendosi – con tanto di alambicchi e fialette polverose – tutto uno stupendo, oscuro laboratorio in cui vediamo muoversi «una evoluzione al contrario» di fantastiche meduse, insetti e fossili, tutte creature mai esistite ovviamente, ma decisamente esilaranti.
Le enormi pareti della ex fabbrica di Lipsia sono tappezzate di mega-schermi e video pieni zeppi di intelligentissimi Avatar. Una delle più note artiste digital di Shangai, Lu Yang, ha riprogettato un’altra sé stessa, nel ruolo di fascinosa super-eroina (carica ovunque di sensori nel suo costumino nero-verde fosforescente, e ultra-aderente). Molto dissacranti poi le sue pseudo-anatomiche riconfigurazioni digitali del «cervello» e degli attributi di asiatiche divinità. Anche i video del nuovo trend Détournement sono in fondo delle delicate, raffinate parodie: si tratta di «girare al rovescio» le più classiche pellicole di Kung-fu, ma con dei sottotitoli di stampo politico o filosofico, come fa Hu Jieming nelle sue parodie di alcune serie cinesi. L’arte digitale, con tutte le sue tecnologie d’avanguardia, gioca spesso con effetti slow-motion o mimando le vecchie tecniche al rallenti. Nelle video-animazioni di Susanne Wagner compare l’artista stessa che, con una manovella in mano e un cavo, si illumina al ralenti come una madonna bavarese. In un suo altro video-trittico, un giovane scultore decostruisce un pezzo alla volta una scultura luminosa (di tubi al neon dai colori Mondrian).
Geniale anche Man at Work, una sorta di preistorico proiettore ricostruito da Julien Maire con tante piccole diapositive (fatte ognuna a mano dall’artista) inserite su un traballante nastro di gomma. Sulla parete freme così un divertente «cinema-scultura» di un minatore, che ricorda i primi filmini in bianco e nero, ma rivisto in chiave digitale. Certo, i lavori più «spettacolari» sono quelli concentrati nella sezione dell’arte Robotica. Dove, con occhialini 3D sul naso, siamo risucchiati nei tunnel stereoscopici del video La Dispersion du Fils di Michel Bruyère. O incantati davanti ai suoni e alle luci di 3D Water Matrix, una vera fontana di luce sintetizzata da Shiro Takatani, sincronizzando cascate d’acqua e luci digitali. La meraviglia poi del digitale è la capacità «immersiva» delle nuove tecnologie: Sarah Kenderdine & Jeffrey Shaw sono riusciti a ri-programmare, senza timori né ritegno, nientemeno che il capolavoro della Vergine delle rocce di Leonardo. Basta un iPad, e nel loro spazio di 70 metri quadrati visualizziamo ogni millimetro delle grotte che Leonardo, nel suo dipinto, ha solo accennato.
Digital Art sta dunque per un’arte dissacrante, ironica, anche scioccante, che ci consente di re-inventare la storia dell’arte, implementare il nostro quotidiano, «aumentarne» le percezioni.
«Oggi dobbiamo trovare un equilibrio fra realtà e dimensioni digitali», spiega Castelli, «le varie forme di Digital Art hanno già costruito intorno a noi un nuovo classicismo». Che si tratti di realtà «aumentata» al computer, di identità sempre più fluide degli artisti o di percezioni-potenziate, l’importante è perdere le paure di fronte al digitale. Ad esempio entrando negli spazi estremi e lasciandosi immergere nella «nebbia-digitale», che Kurt Hentschläger ha creato nella sua opera ZEE.
Ma la famiglia della Digital Art è così ampia che a Lipsia troviamo anche operazioni «mitologiche», come l’impressionante installazione Le Chemin de Damastès, in cui Jean Michel Bruyere ha allineato 21 lettini da camera operatoria, sincronizzati fra loro e con rumori scricchiolanti, ricostruendo con l’ausilio dei robot, la saga greca del letto «spezza-osse» di Procuste. E in fondo non stupisce che tutto questo mondo digitale si rianimi oggi in una ex fabbrica abbandonata a Lipsia. La città in cui è nato Leibniz, il filosofo che con i suoi elementi di logica binaria ha creato l’universo dell’informatica, in cui oggi tutti noi siamo immersi dalla testa ai piedi.