È mai possibile che un gabinetto sia stato utilizzato per secoli nell’ambito del rituale ieratico e rigidamente codificato con cui viene incoronata la massima autorità religiosa della Chiesa cattolica? La risposta, per quanto sorprendente possa apparire, è «sì», come ci racconta la mostra Recycling Beauty in corso alla Fondazione Prada di Milano, nelle cui sale, tra tanti capolavori dell’arte classica, è esposta anche una latrina di epoca adrianea.
Ma andiamo con ordine. Innanzitutto, va precisato che non si tratta di una semplice latrina, ovvero del corrispettivo antico delle tazze in ceramica smaltata a cui ci ha abituato da oltre un secolo la standardizzazione industriale. Quello esposto a Milano e proveniente dal Museo Pio Clementino (in origine erano due, ma uno se l’è preso Napoleone e si trova ora al Louvre) è infatti uno splendido sedile in marmo rosso con piedi leonini e decorazioni di volute e palmette in bassorilievo, che presenta al centro della seduta un foro circolare aperto sul davanti. Sia questo sedile sia il suo gemello al Louvre provenivano da un bagno privato che, vista la loro estrema raffinatezza, doveva far parte della residenza imperiale. Travisando completamente il significato della loro forma, nel medioevo vennero però ritenuti delle sellae gestatoriae, ossia delle sedie desinate alle partorienti.
Attestate in San Giovanni in Laterano fin dalla fine dell’XI secolo, le due sedie in porfido, dette per questo sedes porphyreticae, venivano utilizzate per la cerimonia di investitura del Papa assieme a un terzo sedile di epoca romana, chiamato sedia stercoraria perché considerato, questo sì, un’antica latrina. In realtà, a differenza delle prime due, questa sedia in marmo bianco non era affatto un gabinetto, ma un trono, la cui seduta presentava però nella parte anteriore una rientranza a semiluna. Dall’erronea interpretazione medievale della funzione di questi tre oggetti antichi derivò tuttavia il significato metaforico con il quale vennero utilizzati per alcuni secoli durante la cerimonia di incoronazione papale. Il pontefice doveva infatti sedersi inizialmente sulla sedia stercoraria, quale atto di umiliazione che gli ricordava la sua natura umana e poi distendersi come una partoriente sulle due sedie porphyreticae per rinascere interiormente a nuova vita come richiedeva il ruolo che stava per assumere. Per la loro forma e funzione queste sedie fornirono appiglio a numerose leggende, come quella che voleva che il loro foro servisse a verificare, attraverso le opportune palpazioni, che il futuro Papa, come scrisse il canonico ed erudito zurighese Felix Hemmerli nel 1444, avesse veramente «virgam et testiculos». Una verifica resasi necessaria a seguito della vicenda, anche questa in realtà totalmente leggendaria, della Papessa Giovanna, la quale, celando la propria identità femminile, sarebbe riuscita a salire fino al soglio pontificio nel 853. Scoperta a causa di un parto prematuro (evidentemente non aveva avuto l’accortezza di rispettare il voto di castità) venne lapidata dalla folla inferocita due anni dopo. Fu probabilmente perché prestavano il fianco a leggende e maldicenze, che, a partire dal Cinquecento, per decisione di Leone X prima e di Pio V poi, le tre sedie non vennero più utilizzate nel cerimoniale di insediamento.
«Il nuovo contesto assorbe quel che reimpiega, ma deve lasciarlo riconoscibile anche mentre se ne impadronisce»
La curiosa storia di questi sedili è una delle tante che ci racconta la mostra, curata con la consueta autorevolezza e competenza da Salvatore Settis, che già nel 2015 aveva firmato un’altra esposizione memorabile dedicata all’arte classica in concomitanza con l’inaugurazione della nuova sede milanese della Fondazione Prada.
Senza intralciare la capacità evocativa e la grandiosità di opere spesso ridotte in stato frammentario, il preciso e illuminante apparato didattico inserito nell’allestimento progettato da Rem Koolhaas, permette di dipanare il groviglio inestricabile di trasformazioni, reinterpretazioni, rifacimenti, ricostruzioni, integrazioni, modifiche, aggiunte, rifunzionalizzazioni di cui sono stati fatti oggetto molti manufatti antichi nel lungo arco di tempo che va dal Medioevo all’età barocca. A illustrare la storia di questi oggetti e ad ampliare la prospettiva della mostra ai contesti urbani e architettonici contribuisce in maniera decisiva anche il ricco catalogo che illustra dettagliatamente la «rosa di causali che gli sono soffiate addosso a mulinello», per dirla con Gadda, permettendoci in questo modo di leggere in tutta la sua ampiezza quel capillare processo di riciclaggio che – integrando e assimilando in una nuova narrazione le macerie di un impero imploso su sé stesso nel momento della sua massima espansione – ha dato il via alla rinascita della civiltà europea.
Se in alcuni casi, come nel caso dei due sedili appena citati o delle migliaia di capitelli e colonne integrati nelle chiese romaniche, assistiamo semplicemente a un riutilizzo con funzioni e in un contesto diversi, in altri casi il processo di assimilazione e riciclaggio prevedeva interventi più invasivi come testimonia il rilievo proveniente dal Museo di Velletri, raffigurazione del trasporto di un guerriero morto in battaglia, trasformato successivamente, attraverso l’aggiunta di alcune aureole, in una deposizione di Cristo. Analogo il caso di una testa dell’Imperatore Antonio Pio innestata sul corpo di un sacerdote romano e trasformata, con l’aggiunta di un bastone, in una raffigurazione di San Giuseppe. Ma il processo di assimilazione poteva anche comportare la distruzione completa dell’oggetto antico, come nel caso delle innumerevoli lastre e colonne di preziosi marmi di epoca romana – dal marmo bianco al porfido, dal serpentino al paonazzo – triturate per ottenere le tessere policrome con cui i maestri cosmateschi realizzavano i loro splendidi pavimenti intarsiati, tra cui quelli della Cattedrale di Agnani e dell’Abbazia di Westminster. Ma anche nei casi di appropriazione più estrema il riferimento al passato non venne mai cancellato.
Come scrive Settis, «il nuovo contesto assorbe quel che reimpiega, ma deve (e vuole) lasciarlo riconoscibile anche mentre (anzi, proprio perché) se ne impadronisce». Ed è quello che avvenne anche per il colosso di Costantino, la cui ricostruzione in scala 1:1, qui proposta per la prima volta con grande acribia filologica e dispiego di mezzi tecnologici, vale da sola il prezzo del biglietto. Per la statua dell’imperatore alta oltre 11 metri e realizzata probabilmente dopo la vittoria di Ponte Milvio era stata infatti riutilizzata, dopo le opportune modifiche, una statua di Giove Capitolino di alcuni secoli prima. In questa sostituzione simbolica della divinità con la figura dell’imperatore si compiva però in qualche modo il destino finale dell’impero romano, che probabilmente era veramente diventato too big not to fail. Ma la grandiosità delle sue rovine, come ci ricorda un famoso disegno di Füssli che raffigura i resti del colosso, avrebbero continuato a suscitare lo sgomento e l’ammirazione di chi sarebbe venuto dopo.