L’arguto Leo

L’intelligenza e la verve dell’editore, giornalista e scrittore Leo Longanesi nel bel romanzo La sua signora
/ 12.06.2017
di Mariarosa Mancuso

Il Sicilian tragedi, Ottavio Cappellani racconta un «Romeo e Giulietta» messo in scena da un regista d’avanguardia con attori presi dal teatro dialettale (anzianotto è Romeo, e pure Mercurio, ridicoli nelle loro calzamaglie). Recitano nell’anfiteatro di San Giovanni La Punta – «anello di congiunzione tra la cultura greca e l’abusivismo edilizio» – con tubi innocenti per unica scenografia. Spiega il regista che basta aggiungere un cartello con la scritta «casa di Giulietta» e «i tubbi» diventano la casa di Giulietta, nel teatro elisabettiano si usava così. (Il romanzo era uscito da Mondadori qualche anno fa, e presto sarà in libreria – con la sigla SEM, Società Editrice Milanese – il sequel intitolato Sicilian comedi).

Nel 1951, Leo Longanesi aveva già annotato nel suo taccuino: «Al Café des Deux Magots, un pittore italiano, di Lecce, confezionato da artista d’avanguardia, dice: “L’apporto del tubo nell’arte moderna è grandissimo”». C’è tutto: il tubo, il sud, l’avanguardia, le alzate d’ingegno che a furia di essere praticate diventano luoghi comuni.

Il primo che fece indossare abiti moderni agli attori scespiriani sapeva sicuramente quel che faceva; dopo caterve di imitatori possiamo solo sperare in uno Shakespeare recitato con i costumi d’epoca. Il primo regista che alla fine di uno spettacolo svelò i macchinari che rendono possibile la magia fu un innovatore. Ma già in Fratelli d’Italia – prima stesura, anno 1963 – Alberto Arbasino trovava il trucchetto piuttosto stantio.

Sembra scandaloso mettere insieme Leo Longanesi e Alberto Arbasino. Da una parte lo scrittore, giornalista, disegnatore nato a Bagnacavallo nel 1905, che proponeva di mettere sulla bandiera italiana «Tengo famiglia», e che nel 1950 fondò il settimanale «Il borghese». Dall’altra lo scrittore dandy che ha visto tutti gli spettacoli teatrali, ha ascoltato tutte le opere, ha letto tutti i libri, senza distinguere tra romanzi e memoir. Contro Leo Longanesi pesa la condanna ideologica, e sarebbe ora di finirla, perché è bravissimo.

Alberto Arbasino ha scolpito nel cemento le tre tappe dell’intellettuale – «Giovane promessa, solito stronzo, venerato maestro». Leo Longanesi non è da meno, quando illustra la seconda fase scrivendo – di un certo «N» che non specifica, molto somigliante a tanti scrittori che sparano romanzi a scadenza trimestrale – «alla sua penna sono appesi una moglie, diversi figli, una madre e una serva. Bisogna tenerne conto, quando si giudica la sua prosa».

E come sarà la prosa in questione? Eccola precisamente descritta, nella sua inutilità: «Adopera molti avverbi per dar forza ai concetti che non riesce a esprimere». Scatta l’applauso, e nello stesso tempo siamo presi da una crisi di sconforto: è passato più di mezzo secolo, il mediocre scrittore italiano ha gli stessi difetti (e schiere di critici che neanche glielo fanno notare, e di Leo Longanesi in giro non se ne vedono).

Ultimo libro pervenuto, edito dalla casa editrice Longanesi (non è omonimia, l’aveva fondata nel 1946): La sua signora. Prefazione di Indro Montanelli e postfazione di Pietrangelo Buttafuoco, volendo tenere lontani i lettori ottimisti e di sinistra non si poteva far meglio. Gli altri godranno, oltre alle battute, anche le malinconie: «No, non rassomiglio affatto a quel signore che credevo di essere stamattina quando ho comprato il cappello nuovo» – e chi non l’ha pensato, portando a casa un vestito troppo vistoso, o un paio di scarpe con i tacchi troppo alti?

Capita a tutti, in un momento di sconforto, di mettere in ordine il cassetto delle calze. È bello sapere che non lo facciamo solo noi, e che la smagliante intelligenza di Leo Longanesi aveva afferrato il perché: «Melanconia. Come sempre mi accade in questi momenti metto in ordine nei miei cassetti. È un modo come un altro di aver fiducia nell’avvenire».

A tratti Longanesi ricorda Ennio Flaiano (altro accostamento che spiacerà ai fan dell’uno e ai fan dell’altro). Gli basta una frase per inquadrare in maniera poco lusinghiera l’intoccabile Benedetto Croce: «Perfetto come un orologio svizzero, non ritarda e non avanza». E un’altra per ribaltare – con anticipo sui tempi, l’annotazione sul taccuino risale al 1955 – le litanie sull’infanzia difficile, sulle sofferenze che temprano, sulla televisione del dolore. «Non c’è da fidarsi di lui, ha molto sofferto». Quasi quasi – stanchi come siamo di ascoltare lamenti poco allegri, gli unici che di questi tempi sembrano avere dignità intellettuale – la facciamo scrivere sulle magliette.