La vera notizia è che nel bel mezzo delle concitate settimane che hanno portato al passaggio di consegne da Donald Trump a Joe Biden, e in cui l’America non ha mostrato il miglior lato di sé, tra un dispetto infantile e una presa del Campidoglio si è finiti a parlare anche di poesia. Merito di Amanda Gorman, certo non il nome più prestigioso tra quelli che si sono avvicendati a celebrare il nuovo presidente lo scorso 20 gennaio, che con i suoi 22 anni ha adombrato una performer di lungo corso come Lady Gaga, dando il via a un dibattito acceso e in fondo edificante. Ce ne fossero di più di occasioni simili, per parlare di politica e di poesia, per guardare più serenamente e meno banalmente al futuro.
Figlia di madre single e discendente dagli schiavi d’America, come lei stessa si definisce in The Hill We Climb, Amanda Gorman ha ipnotizzato per sei minuti una platea virtuale di alcune centinaia di milioni di persone. Forte del candore della sua giovane età, ma anche di una personalità solida e solare, si è rivolta a tutti («America and the World») come se fosse per lei un esercizio consueto. Sul valore letterario della sua poesia si sono espressi in molti, nei giorni scorsi, usando anche gli strumenti affilati della filologia. Forse più che i letterati dovrebbero esprimersi i sociologi e gli esperti di comunicazione, perché la sua lettura è stata un vero e proprio evento, un esempio alto di spoken word in un contesto certamente privilegiato, ma anche in una cultura profondamente diversa dalla nostra, più predisposta ad accogliere questo tipo di rito. Nulla del genere sarebbe pensabile per l’insediamento di un presidente europeo, non parliamo del Consiglio federale...
L’America stessa ci è arrivata per fasi, iniziando da John Fitzgerald Kennedy e dal suo invito all’allora decano dei poeti statunitensi, il grande Robert Frost. La tradizione è poi continuata con altri presidenti democratici, da Bill Clinton a Barack Obama, e la figura del poeta «inaugurale» ha finito per assumere connotazioni simboliche e sociali importanti: da una donna di colore (Maya Angelou nel 1993) a un omosessuale latinoamericano figlio di immigrati (Richard Blanco nel 2013). La lettura di Amanda Gorman si inserisce in questa dinamica, con in più l’eccezionalità data dalle circostanze e da un’audience mai prima di allora così esasperata e divisa. I versi di The Hill We Climb, c’è poco da obiettare, miravano a riunire una nazione ferita, e in una certa misura ci sono riusciti.
Perché allora continuare a chiedersi se fossero poesia oppure no? Cresciuti in una cultura che ha perso gran parte della sua tradizione orale, noi lettori europei non siamo in grado di cogliere il vero valore, rituale e magnetico assieme, di un testo ritmato pronunciato per le orecchie di molti. Dalla spumeggiante omiletica dei pastori protestanti ai rapper di maggiore capacità linguistica (Eminem, se un nome va fatto) fino agli slanci epici di alcuni allenatori e commentatori televisivi, non c’è ambito in cui la società statunitense non si affidi a una parola forte e condivisa. Persino i discorsi di battaglia nelle pellicole hollywoodiane, da Braveheart a Uomini di gloria, testimoniano questa energia verbale.
I nostri testi, nemmeno i più alti, non sono stati pensati per quello. Provare con Petrarca, Leopardi, Pascoli, provare con Montale, che con il suo tono baritonale e dimesso ha eclissato nel Novecento la figura del poeta-vate per eccellenza, Gabriele D’Annunzio. Forse, ma la questione andrebbe indagata a fondo, in un’Europa a lungo segnata dai totalitarismi ogni uso poetico della retorica finisce per sollevare un’alzata di scudi. Un nazionalismo caldo e un po’ dopato come quello statunitense non ci appartiene, preferiamo continuare a guardare il nostro ombelico e cercare, per quel che ci riesce, di condividerlo con il resto del mondo. Siamo anche un po’ invidiosi, lo si ammetterà senza problemi.
Eppure, se un parere letterario mi venisse richiesto, non avrei difficoltà ad ammettere che un testo come quello di Amanda Gorman non mi convince del tutto. Non mi soddisfano, tolta l’emozione del momento, le metafore troppo lineari (l’alba del futuro, la scrittura di un nuovo capitolo), gli appelli enfatici («We will rise») o ancora i troppi giochi fonosimbolici («the norms and notions / of what just is / isn’t always just-ice») che inevitabilmente si depotenziano una volta venuta meno la voce della loro autrice. Non è questione di genere letterario, perché un testo degli anni Trenta come Let America be America again di Langston Hughes, così simile e così diverso, non ha perso un grammo della sua forza provocatoria, della sua «novità». La poesia non può limitarsi infatti a dirci quello che già sappiamo, in un modo prossimo a come lo diremmo tutti. È in questo scarto di visione, politico finché si vuole, ma certo anche molto letterario (all’incrocio tra lingua e stile), che risiede la sua vera essenza. Il resto è semplice – si fa per dire – efficacia comunicativa. Amanda Gorman, di cui sentiremo ancora parlare a lungo, dice di stare pronti, perché nel 2036 potrebbe anche puntare alla presidenza. Ne sarebbe capace.