Hanno Helbling era un uomo elegante, molto discreto e profondamente colto. Gli abiti di sartoria londinesi di Cottrell e Parker a Savile Row stabilivano una perfetta armonia tra il suo aspetto esteriore e la sua personalità. Così lo ricorda Martin Meyer in quello che non vuole essere un testo biografico ma un omaggio a chi lo ha iniziato al giornalismo offrendogli, all’indomani del suo primo articolo, un posto in redazione a metà tempo. Era l’estate del 1974. Studi in storia, filosofia e letteratura tedesca all’Università di Zurigo, lo studente provò un’immediata simpatia per il suo futuro maestro e non si lasciò scappare l’occasione di entrare a far parte del prestigioso quotidiano di lingua tedesca.
La «Neue Zürcher Zeitung» era considerata un’istituzione, una voce liberale autorevole che nei decenni del fascismo e del nazionalsocialismo non perse né la testa né la sua morale ma rimase fedele a sé stessa accrescendo la sua reputazione. È qui, a mio modo di vedere, che risiede la bellezza e la peculiarità di questo volume: ritrae Helbling dal punto di vista professionale e umano e al contempo ripercorre ciò che la NZZ è stata e ha rappresentato fino a qualche decennio fa. Una testimonianza particolarmente preziosa in tempi in cui il management della Zürizytig della Falkenstrasse ha annunciato tagli per 3,9 milioni di franchi nelle redazioni. Uno scenario impensabile ai tempi di Meyer e Helbling, tempi in cui uscivano tre edizioni cartacee quotidiane, il giornale era famoso per la sua eccellente rete di corrispondenti politici ed economici sparsi per il globo e entrare a farne parte significava prestigio, potere e riconoscimento. Un’altra epoca, un altro modo di fare giornalismo se si pensa che Willy Bretscher, direttore dal 1933 a 1967, sosteneva fosse un giornale da centomila copie e non di più perché solo una ristretta cerchia meritava di leggere la NZZ.
Classe 1930, storico, giornalista, traduttore dall’inglese, dal francese e dall’italiano, autore ed editore, Hanno Helbling attraverso le sue molteplici attività letterarie, tra le quali si muoveva come un agile atleta, ha influenzato il panorama culturale svizzero e non solo. Responsabile delle pagine del Feuilleton dal 1973 al 1992, incarico onorato con grande competenza e stile, era un uomo brillante dalla penna raffinata ed ermetica, un proustiano appassionato, amico di Golo Mann e grande estimatore del pensiero leopardiano. Rispetto al suo predecessore Werner Weber lasciò più libertà e indipendenza alla redazione, nella sua conduzione rigore e originalità andavano a braccetto e non erano esclusi cambi di programma all’ultimo momento. «Un giorno trascorso uguale all’altro è un giorno perso» usava dire e amava la parola disinvoltura nel senso di un’inattesa serenità nel pensare o fare ciò per cui si deve rendere conto solo a sé stessi. «Con Helbling si andava sul sicuro, sapevamo di poter fare affidamento e ci ha dato molto: intelligenza, cultura e una virtuosità linguistica».
Di formazione storico e letterato, Helbling scrive il suo primo articolo per la NZZ nel 1954. Esce nell’inserto Letteratura e Arte ed è un’originale interpretazione dell’opera teatrale Il segretario particolare in cui a suo dire, pur trattandosi di una commedia, T.S. Eliot riesce a sviluppare uno dei suoi temi cardini: l’incapacità umana di portare e sopportare il peso della realtà. Dopo una parentesi da collaboratore esterno nel 1958 approda alla redazione degli esteri e finalmente al Feuilleton nel 1960. Nel raccontarci il giornalista, l’uomo e la sua epoca Martin Meyer usa una scrittura sobria e pulita che non dà spazio a grandi sentimentalismi ma attraverso tanti dettagli e particolari ravvicinati fa emergere la stima e l’amicizia che a lui lo legarono.
Il direttore del Feuilleton quando redigeva gli articoli lo faceva con maestria e grande velocità, spesso sorridendo. Scriveva i suoi contributi esclusivamente a mano. Aveva, naturalmente, una macchina da scrivere elettrica, ma era riservata alla corrispondenza amministrativa. Per tutti i suoi articoli si armava di penna e blocco a righe formato A4 o A5 che consegnava direttamente in tipografia prendendo il piccolo ascensore a corde da tirare a mano. Perché il passaggio funzionasse i testi dovevano essere scritti nel modo più chiaro possibile, per questo Helbling utilizzava una calligrafia quasi bambinesca a grandi lettere e tra ogni riga ne lasciava una vuota.
I campi in cui Hanno Helbling si distinse furono quello storico, religioso e letterario. Come corrispondente da Roma dal 1962 al 1965 seguì i lavori del Concilio Vaticano II. Nel 1966 a un convegno a Torino incontrò un giovane teologo e occasionale firma del giornale che presto avrebbe fatto carriera nella Chiesa: Joseph Ratzinger. I temi religiosi così come la mistica eckhartiana furono delle costanti del suo pensiero ma il suo centro di interesse rimase la storia. Guardava a Leopold Ranke, maestro della storiografia tedesca e tra le figure più rappresentative dello spirito europeo del 19. secolo, secondo il quale il corso della storia coincide con una varia interazione di forze, colta dall’intuizione dello storico oltre il fortuito combattersi e avvicendarsi di Stati e di popoli. Si ispirò a Jacob Burckhardt e fece sua questa citazione «nell’osservazione storica la poesia è l’immagine dell’eterno di ciascun popolo». O per usare le parole di Thomas Mann in Carlotta a Weimar «il mio canto dà perennità a tutto ciò che è caduco».
In campo letterario grande stima e amicizia lo legarono alla scrittrice Christa Wolf di cui teneva una foto sulla scrivania. Nelle sue critiche sapeva colpire di sciabola e lo fece in occasione del Guglielmo Tell per la scuola di Max Frisch definendo il pamphlet «il tentativo inqualificato e infantile di rivisitare un’opera che ormai non vantava più alcun credito scientifico. Si trattava di un’intenzione parodistica? Per quanto si cerchi di tendere l’orecchio non si sente la risata dell’ironico, né la smorfia del satirico, solo il ridacchiare della persona gretta».
Nato a Zuoz in Engadina, cresciuto a Rapperswil, l’uomo che da bambino superò la poliomelite e nel 1985 subì un importante intervento al cuore amava andare a caccia, a cavallo e a passeggio con il suo Golden retriever Hazel al quale dedicò un racconto sulla falsa riga di Cane e padrone di Thomas Mann. Un’altra sua grande passione era la musica. A Zurigo ad un recital in cui Itzhak Perlman eseguì sonate e partite per violino solo di Bach disse «chi ascolta questa musica si rende conto che in seguito non è stato prodotto più niente di eguagliabile». Nel 1981 divenne membro della Deutsche Akademie fuer Sprache und Dichtung, nel 1986 ricevette il premio Johann – Heinrich-Voss e nel 1997 il Prix lémanique de traduction. Innamorato dell’Italia e della sua cultura sin da quando, ancora giovane, seguì le lezioni di Federico Chabod a Napoli e a Roma, fu qui che scelse di vivere gli anni della pensione e del suo secondo amore per la scrittrice e traduttrice svizzera di origine ungherese Christina Viragh.
Ma non smise mai di scrivere, di tradurre e di collaborare con la NZZ alla quale rimase legato per tutta la vita. Anzi, per lungo tempo, ci racconta Martin Meyer, continuò a vedere il Feuilleton come un’estensione di sé stesso, a concepirlo come quella torre d’avorio che in stile Sainte Beuve si era impegnato a costruire e a difendere. Ma i tempi stavano cambiando e la torre iniziò a scricchiolare. Hanno Helbling muore a Roma nel 2005 all’età di 74 anni. Grazie a Martin Meyer per questo bel ritratto e per il tuffo in un mondo giornalistico che non esiste più.
Bibliografia
Martin Meyer, Hanno Helbling, NZZ Libro, Zurigo 2020.