L’abisso nella casa

Riguardando, oggi, "L’angelo sterminatore" di Luis Buñuel
/ 01.06.2020
di Daniele Bernardi

Cosa ne è degli agiati protagonisti di L’angelo sterminatore (1962) di Luis Buñuel quando, dopo un tempo di indefinita reclusione che li ha visti mostrarsi per le bestie che sono, riescono finalmente a varcare la soglia del salotto in cui erano costretti da un surreale incantesimo? E perché nell’intitolare la sua opera il regista spagnolo sceglie di non utilizzare il nome della pièce di José Bergamín a cui attinge – I naufraghi di Via della Provvidenza – ma l’immagine biblica di Abaddón, l’angelo dell’abisso che appare nelle pagine dell’Apocalisse di Giovanni?

Per rispondere occorre forse proprio partire da qui, dal significato etimologico di «apocalisse» che ha la sua radice in «rivelare». Ma quale rivelazione si cela nell’enigmatica conclusione della pellicola?

Dopo essere stato a teatro, un gruppo di amici dell’alta borghesia è invitato a trascorrere la serata da una delle famiglie. Mentre fervono i preparativi della cena, come un’animale che percepisce la catastrofe, la servitù prende a defilarsi misteriosamente. Cominciano le prime stranezze: due scene si ripetono pressoché identiche, con minime varianti, quasi che la comitiva (e con essa lo spettatore) fosse vittima di un curioso déjà vu. Poi improvvisamente, senza spiegazioni, una delle invitate scaglia un posacenere contro una vetrata mentre orsi e agnelli fanno capolino nella stanza accanto; da una borsetta sporgono piume e zampe di gallina, ma il party continua fra leccate chiacchiere di superficie.

Man mano che il tempo trascorre, tutti pensano che sarebbe il momento di andarsene – l’ora si fa sempre più tarda – senza che nessuno prenda iniziativa. Ecco che allora, chi un poco divertito chi, al contrario, già infastidito, ospiti e padroni di casa approntano un bivacco nel salotto in attesa dell’alba. Il mattino successivo il disagio comincia a farsi palpabile, ma ancora, prigionieri di fisionomie forgiate dalla formalità, non si parla apertamente di quanto avviene. La situazione però non tarda a degenerare perché rapidamente i viveri scarseggiano ed è tempo di dire la verità: anche se non se ne capisce la ragione, non è più possibile lasciare la stanza. Qualcosa lo impedisce.

Iniziano a esserci le prime vittime: sfiancato dalla situazione, un anziano spira sul divano mormorando «Contento... non vedere lo sterminio» mentre un medico cerca di sostenere una comunità sempre più in preda alla violenza delle proprie pulsioni: liti, accuse, notturni tentativi di abuso e percosse costellano un inesorabile stravolgimento condito di allucinazioni e incubi che tolgono il sonno. Il salotto si muta in un «accampamento di zingari» che ricorda un rifugio di profughi, di naufraghi costretti a condividere la propria intimità degradata. Per sopperire alla mancanza di acqua la tribù rompe i muri cercando le tubature e il cibo, su suggerimento del maggiordomo che vediamo raccogliere frantumi di calcinacci in una fruttiera d’argento, è sostituito da frammenti di carta appallottolata; più tardi saranno gli agnelli della casa a saziare i presenti.
Infine, come colti da un’illuminazione, all’apice del disfacimento i membri trovano un modo per infrangere la maledizione quando d’un tratto, senza volerlo, ognuno si accorge di essere nella posizione che aveva nel momento in cui, al principio di tutto, rimase vittima dell’impossibilità di uscire. Vengono quindi ripetute le frasi dette durante la serata e, come per magia, è concesso raggiungere l’esterno, dove le autorità hanno ormai ammainato la stessa bandiera che indica le zone di isolamento durante le epidemie.

È fatta, allora? No, per niente. L’indomani la comunità miracolata si raccoglie a messa, ma a cerimonia conclusa l’ingranaggio si ripete: la gente non riesce e oltrepassare il portone. Fuori, adesso, infuriano i disordini e le forze di polizia si schierano disperdendo la folla che accerchia l’edificio. Intanto, un apocalittico gregge di pecore si incolonna all’ingresso della chiesa.

Se attraverso l’affiorare delle brutali latenze Buñuel si avvicina alla medesima idea che aveva Antonin Artaud del fenomeno sociale della peste («la peste è la rivelazione», scriveva l’attore-scrittore nel 1938), con questo epilogo sembra anche offrire un’altro svelamento: la quarantena dei protagonisti è solo la punta dell’iceberg di una crisi strutturale più grande, che coinvolge un impianto di valori eretto sull’orlo del baratro. È illusorio credere che, una volta fuori, si possa realmente abbandonare la stanza, perché essa si estende ben oltre le mura della casa e ha le sue fondamenta nel cuore di un sistema che palesa la sua crisi.