Lidia Poët era nata alla metà del diciannovesimo secolo, il 26 agosto 1855, in un villaggio alpino piemontese. Tra le prime signorine ammesse ai corsi accademici nel novello Regno d’Italia, nel 1881 si laureò in Legge a Torino discutendo uno Studio sulla condizione della donna rispetto al diritto costituzionale ed al diritto amministrativo nelle elezioni, nel quale rivendicava per lo meno il diritto di dibattere seriamente la questione del suffragio femminile: ci sarebbero voluti quasi settant’anni perché il tema trovasse soluzione nella Penisola (e se si guarda al di qua del confine, l’anticipo è pressoché secolare), ma Lidia conseguì infine di esprimere il proprio voto, ormai ultranovantenne, a partire dal referendum del 2 giugno 1946. Basterebbero forse questi dati a rendere l’idea dell’eccezionalità di Lidia Poët, benché sin qui si siano evocate per lo più congiunture casuali, senza neppure considerare davvero le doti e la caparbietà fuori del comune della protagonista.
La sua figura merita, infatti, di profilarsi nitidamente nella storia dell’emancipazione femminile per una ragione ben precisa, persino sorprendente nella sua semplicità: divenuta la dottoressa Poët, Lidia non rinunciò a condurre al suo logico compimento il percorso intrapreso varcando le soglie dell’Università, tra la benevola curiosità di compagni, docenti e cronisti. Ciò significa che assolse l’obbligo del praticantato, sostenne con successo l’esame di abilitazione all’avvocatura e, di conseguenza, il 28 giugno 1883 presentò un’inedita ma regolare domanda di iscrizione all’Albo degli Avocati di Torino. E qui la vicenda di Lidia cessa di essere soltanto sua. Il pronunciamento iniziale (favorevole seppur dibattuto) del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del capoluogo piemontese innescò una sequela di ricorsi, rinvii a giudizio e sentenze, coinvolgendo non soltanto le istituzioni giuridiche e politiche, ma anche gli organi di stampa e l’opinione pubblica. Per alcuni anni, il confronto sulla possibilità che una donna fosse ammessa ad esercitare l’avvocatura fu acceso, con prese di posizione a favore o contrarie da parte di giuristi, intellettuali, politici e femministe. Dirimere la trama delle questioni legali, sociali e culturali sollevatesi attorno alle aspirazioni di Lidia Poët richiede di considerare con competenza e senza filtri anacronistici i margini di interpretazione delle leggi e delle aspettative della società italiana al volgere dell’Ottocento: una prospettiva piuttosto lontana dalle esigenze di semplificazione della scrittura seriale, specie se la sceneggiatura predilige eroine solitarie e seducenti, dedite quasi soltanto ad assecondare la passione per il giallo del grande pubblico. L’invito è allora ad affiancare alla serie Netflix che ha beneficiato di tanta attenzione mediatica (La legge di Lidia Poët) la ricostruzione storico-biografica confezionata con cura intelligente e cognizione di causa dall’avvocato Pasquale Tammaro insieme a Ilaria Iannuzzi, corredata di tutti gli atti processuali relativi al caso e di gustosissimi estratti dalle pubblicazioni a stampa dell’epoca.
Sarebbe semplicistico limitarsi a ricordare che la Corte d’Appello di Torino, seguita dalla Corte di Cassazione, nell’autunno 1883 impose la cancellazione di Lidia Poët dall’Albo sulla base della convinzione che «l’avvocheria fosse un ufficio esercibile soltanto dai maschi, e nel quale non dovevano punto immischiarsi le femmine» (p. 182); o lamentare che Lidia continuò a lavorare nell’ombra dello studio legale del fratello fino al 1920, quando, in ottemperamento a nuove normative, all’età di sessantacinque anni fu finalmente riammessa alla professione. La professionalità dell’avvocato Poët invita a penetrare nel vivo dei dibattimenti, per saggiare (con l’aiuto dei curatori) le ragioni da lei addotte contro l’opinione diffusa dell’implicita esclusione delle donne da un ufficio le cui norme non prevedevano requisiti di genere. Soddisfa il nostro senno di posteri constatare che a Lidia non mancarono mai argomenti validi, mentre i suoi avversari furono spesso costretti ad opporre – come lei stessa ebbe a scrivere – obiezioni «più rettoriche che giuridiche, ispirate a ragioni di sentimento e non a que’ principi di diritto e a quella ragion positiva che soli possono e debbono essere invocati» (p. 159). E aiuta a comprendere le radici di alcuni fronti ancora oggi tutt’altro che pacificati scoprire che, tra le righe del suo ricorso, il Procuratore Generale di Torino lasciò cadere un’allusione al fatto che nella «letterale disposizione della legge» si parlasse sempre «di avvocati e non di avvocate» (p. 155), costringendo Lidia a replicare che «sarebbe davvero troppo comoda teoria […] il considerare come escluse le donne da tutte le disposizioni dove una espressione di genere maschile indica i diritti e gli oneri dei cittadini dinanzi alla legge» (p. 161). Ma quel che consola più di tutto è constatare, una volta di più, come l’errore finisca sempre per svelare, anche da solo, le proprie contraddizioni: vien da sorridere leggendo come la Procura propugnasse «in modo assoluto la incapacità del sesso debole alle funzioni» in questione per «la deficienza […] di adeguate forze intellettuali e morali, fermezza, costanza, serietà» (pp. 168-170), e come la sentenza della Corte di Appello ne accogliesse i propositi, adducendo tra i motivi anche il sospetto che i signori magistrati, fermi costanti e seri, si sarebbero potuti piuttosto facilmente piegare «in favore della parte per la quale ha perorato un’avvocatessa leggiadra» (p. 183). Che il sesso debole non mettesse troppo alla prova le debolezze del sesso forte, insomma. Così vanno spesso le logiche del mondo; voglio dire, così andavano nel secolo decimonono.