La verità in fondo al sacco

La prima edizione commentata del romanzo di Martini
/ 28.08.2017
di Pietro Montorfani

Si potrebbe discorrere a lungo, senza sperare di arrivarne a una (come accadde a Italo Calvino), su quale sia la vera essenza di un classico della letteratura. Per tagliare la testa al toro, e partendo invece dalla fine, si potrebbe dire che un classico si manifesta come tale nel momento in cui al folto pubblico dei semplici lettori iniziano ad affiancarsi lettori di secondo grado: critici, curatori, filologi.

Anche nel ristretto ambito della letteratura svizzera di lingua italiana, cioè la più estrema delle letterature regionali d’Italia, si sono andati individuando nel corso del Novecento alcuni nomi solidi che ben si meriterebbero la qualifica di classici. In poesia, naturalmente, Giorgio Orelli, almeno quello di L’ora del tempo (1962) e Sinopie (1977); in prosa il Signore dei poveri morti di Felice Filippini (1943), L’anno della valanga di Giovanni Orelli (1965), L’albero genealogico di Piero Bianconi (1969), Il fondo del sacco di Plinio Martini (1970). A poca distanza, anche cronologica, le opere di Sandro e Remo Beretta, di Federico Hindermann, Grytzko Mascioni, Alberto Nessi, su su fino a Gilberto Isella e Fabio Pusterla. Chi vuole, se gli va, può ripescare anche Valerio Abbondio, Giuseppe Zoppi o Francesco Chiesa, per costruirsi il pantheon che più gli piace (altra caratteristica dei classici: l’adattabilità).

La progressiva scomparsa, precoce nel caso di Martini, dei protagonisti di quella stagione letteraria ha favorito un interesse critico e filologico (i lettori di secondo grado) di cui già abbiamo iniziato a vedere i frutti negli ultimi anni e che, è da credere, continuerà a produrne nell’immediato futuro. Degli Orelli si parla ormai nelle aule universitarie, si danno tesi di laurea e dottorato su libri scritti negli anni Sessanta e Settanta, si annunciano all’orizzonte edizioni critiche, insomma sembra giunta l’ora in cui anche gli strumenti più avanzati della «scienza» letteraria si sentono autorizzati a chinarsi sui classici di casa nostra. Fatte le debite tare, è senz’altro un buon segnale.

L’ultimo in ordine di tempo, giustamente proposto da Casagrande, sua sede storica, è proprio Il fondo del sacco di Plinio Martini, commentato e curato da due giovani studiosi ticinesi cresciuti all’Università di Friburgo ‒ nei paraggi dunque del figlio dell’autore, il filologo Alessandro. Matteo Ferrari per la parte letteraria e Mattia Pini per quella linguistica, lavorando gomito a gomito, hanno continuato un lavoro in parte iniziato da altri, se è vero che già esisteva un’edizione commentata del secondo romanzo di Martini, Requiem per zia Domenica (1976), apparsa nel 2004 da Dadò per le cure di Ilario Domenighetti. È importante ricordare quel Requiem, i cui criteri di edizione e commento tutto sommato anticipano quelli di questo nuovo Fondo.

Spiegare Martini a un vasto pubblico è cosa ardua, tanto i suoi libri sono radicati in una realtà di valle scomparsa da tempo e da lui letta in termini assoluti di amore-odio, come accade soltanto a chi abbia avuto un’esperienza forte, sincera, viscerale. Tradurre la passione di Martini, il bene e il male del suo racconto della Bavona, in termini comprensibili a lettori nati nel terzo millennio impone perciò, in sede di commento, scelte drastiche: con coraggio i curatori hanno individuato i loro lettori ideali tra i più lontani dal contenuto del libro, giovani studenti che non conoscano il significato di «telegramma», di «giorno dei morti», di «réclame». A prima vista tanta abbondanza di spiegazione lessicale potrebbe forse far sorridere, ma il sorriso subito si spegne assieme al dubbio che siano note davvero necessarie per molti lettori di oggi.

L’apparato di commento proposto da Pini e Ferrari rimane, nonostante questa premura, di misure contenute, non interferisce con la lettura del libro e anzi la facilita e la illumina in molti punti, soprattutto laddove si richiamino i debiti letterari di Martini (con Fenoglio, Pavese, Verga, ma anche Dante e Manzoni) o il continuo emergere della patina linguistica dialettale sotto l’italiano mescidato del libro. A livello di strutture narrative prendono nuova evidenza gli snodi della storia: la descrizione impietosa della vita di valle, la sofferta partenza per l’America, la vicenda d’amore tra Gori e Maddalena, la polemica contro le centrali idroelettriche. Il merito di Martini è stato quello di essere riuscito a fondere in un romanzo equilibrato, godibile, anche temi forti, realistici, al limite politici, che sarebbero stati forse più adatti a un reportage giornalistico.

Forse anche per questa ragione, il cuore stesso del libro è strettamente legato a un titolo a cui l’autore è approdato tardi e con fatica: l’immagine del sacco che si vuota fino in fondo, dando libero spazio alla propria necessità di sfogarsi (è la lettura proposta dai curatori). Aggiungerei però, in un’ottica meno psicologica, che il cul-de-sac richiama implicitamente la strada senza uscita della vita di valle, che costringe all’emigrazione; ma soprattutto mi pare che il titolo di Martini alluda al desiderio di dire la verità, di raccontarla tutta e senza filtri, anche per rispondere polemicamente al Libro dell’alpe di Zoppi (1922), in cui si raccontava una verità diversa, magari parziale, eppure non meno vera nel suo fugace ottimismo. Tra l’idillio di Zoppi e il crudo reportage di Martini si distende il grande tema della verità in letteratura, il suo essere posta al centro del discorso, il suo non essere mai completa e definitiva. È più «vero» il Seicento di Manzoni o quello della Chimera di Vassalli? L’unica verità che conti, alla fine, è quella dell’incontro tra autore e lettore: in questo, Martini è stato maestro e il nuovo commento evidenzia tutti i suoi meriti.

Bibliografia
Plinio Martini, Il fondo del sacco. Edizione commentata a cura di M. Ferrari e M. Pini. Casagrande 2017. 275 pagine.