La verità artistica di Milo Rau al LAC

Hate Radio ha portato in scena la storia del genocidio ruandese, uno spettacolo che ha lasciato il segno
/ 23.01.2023
di Giorgio Thoeni

Milo Rau è tutto tranne che un visionario. La sua idea di teatro, così concreta e tangibile, non è da confondersi con una lucida visione ma è una meditato esercizio per rivivere la Storia attraverso il teatro facendocela sentire parte di un’esperienza attuale. L’inconfondibile traccia dei suoi lavori è una cifra stilistica che Rau ha sempre costruito con severa e puntuale coerenza.

Un teatro di attivismo politico? Anche. Sebbene, come sostiene, il suo teatro voglia cambiare il nostro atteggiamento. Certamente non vuole che il suo teatro venga etichettato come documentario. Perché è molto altro. Ci aiutano a capirlo le radici culturali che legano Rau a una formazione sociologica appresa all’università cui s’accompagna una solida esperienza giornalistica costruita fra le pagine della «Neue Zürcher Zeitung». Un rigore, quello sì, che è ormai parte nel DNA culturale delle sue regie.

Come per Hate Radio, spettacolo del 2011, fra i più conosciuti dei suoi lavori, che il pubblico luganese ha finalmente potuto vedere nella Sala Teatro del LAC dopo essere stato cancellato dal cartellone per la pandemia. Una platea suddivisa in due ali assiste alla ricostruzione di uno studio radiofonico allestito al centro del palco e ricostruito fedelmente. Lo spettacolo rievoca il ruolo che la stazione radio RTLM/Radio-Télévision Libre des Mille Collines ha avuto durante il genocidio del 1994 in Ruanda ad opera degli Hutu contro la minoranza Tutsi.

Rau ci tuffa dapprima nel cuore della vicenda ricorrendo a testimonianze di sopravvissuti: racconti terribili per la crudeltà con cui si è consumato un genocidio sistematico a colpi di machete. Il pubblico viene quindi immerso in una dimensione d’ascolto con tanto di cuffie per il programma radiofonico riproposto dalla scena. Ai microfoni, tre estremisti Hutu e un belga dalle origini italiane. «Nel racconto del genocidio ruandese – ha raccontato il regista – c’è un’iconografia “imponente”. Si vedono sempre teschi, soldati, bambini morti che non volevo però utilizzare. Io volevo mostrare ciò che non si era mai visto: quella stazione radio: l’invisibilità del genocidio attraverso la sua retorica. Ho chiesto così a dei sopravvissuti, che in seguito sono diventati attori, di partecipare alla ricostruzione scenica di quello studio. Era ciò che per me rappresentava la legittimità».

Lo spettacolo si sviluppa sull’arco di un’ora e cinquanta minuti che volano letteralmente. È un ascolto fitto, intriso di violenza, di incitazioni all’odio, all’eliminazione dei Tutsi, «scarafaggi», come li chiamano in tono sprezzante gli animatori, interpretati in modo assolutamente credibile dagli attori. «Ciò che maggiormente mi interessava – ha proseguito Rau – era de-africanizzare l’azione. Così ho invitato un attore bianco a interpretare un belga che aveva fatto veramente parte di quel programma ma che ha reso la cosa subito molto difficile. È come fare un film sui nazisti e avere un soldato nero delle SS… occorre spiegarlo! E ci si rende così conto di essere di fronte a un genocidio globale dove l’esempio della radio calza perfettamente (…) Abbiamo voluto rappresentare – ha aggiunto – la verità della Storia, della Memoria. (…) Ho inventato i dialoghi, parte dei personaggi… e la musica, anche quando viene trasmessa Rape Me dei Nirvana». Un fiume di voci e suoni e una ricostruzione aderente all’ideologia razzista con un’esattezza emotiva che gli stessi spettatori ruandesi hanno riconosciuto come verità. Una verità che insegue la Storia e che, come per altre sue ricostruzioni sembra rispecchiarsi nella banalità del male descritta da Hannah Arendt. La stessa che ha alimentato l’odio interetnico e le umiliazioni inflitte, i frutti di uno scellerato passato coloniale.

Con quella verità artistica e con Hate Radio Milo Rau ci offre un teatro dal realismo globale in una ricostruzione riconducibile al suo decalogo (2018) dove «l’obiettivo non è quello di rappresentare il reale, ma di rendere reale la rappresentazione stessa».