La tenacia del trapassato remoto

La lingua batte – Questo tempo verbale è ormai un oggetto d’antiquariato linguistico. Tuttavia nelle grammatiche fa sempre e ancora bella mostra di sé
/ 12.04.2021
di Laila Meroni Petrantoni

Vogliamo occuparci oggi del trapassato remoto? Per eccellenza il tempo verbale dell’indicativo più carico di polvere e ragnatele?

Lo sapete bene anche voi che qui c’è odore di soffitta e di muffa. E sapete già bene che la conclusione è ovvia in partenza, ossia la fine del protagonista, o forse dovremmo dire il suo trapasso.

Lascio a voi il primo passo in questo breve testo e vi pongo una domanda: chi di voi, esaurite le lezioni di grammatica italiana ed entrati nel mondo adulto, si è mai trovato a utilizzare volontariamente il trapassato remoto? In classe – almeno fino a pochi anni or sono – durante le interrogazioni con cui il professore usava testare gli allievi sulla coniugazione dei verbi, immancabilmente qualcuno si ritrovava a recitare, tra inciampi di lingua e balbettamenti, il classico «io ebbi mangiato, tu avesti mangiato», eccetera eccetera. Poi nella vita reale? Il trapassato remoto ha la stessa probabilità di entrare nei nostri discorsi quanto l’elettrolisi o il vero ruolo della sala di pallacorda nella Rivoluzione francese. Pazienza, ogni cosa insegnataci con impegno a scuola doveva servire a non farci crescere come bruti, «ma per seguir virtute a conoscenza» (chiedo perdono se la citazione dantesca viene relegata qui a scopi didascalici, non me ne voglia il Sommo Poeta).

Diciamocelo, abbiamo recitato il trapassato remoto a comando. Magari abbiamo anche qualche reminiscenza delle regole grammaticali che lo governano: «utilizzato per indicare fatti che si sono svolti immediatamente prima di un momento indicato dal passato remoto», «esprime un’azione avvenuta nel passato, senza più relazione di effetti con il presente», non intercambiabile con il più elastico (e simpatico) trapassato prossimo.

Ma non perdiamoci fra le regole, oggi. Piuttosto soffermiamoci sull’effettivo uso che oggi si fa (ancora?!) del trapassato remoto. Anzitutto ormai sopravvive solo nell’italiano scritto, e pure italiano parecchio elevato; inoltre è praticamente sempre relegato alle proposizioni secondarie, quella temporale per essere precisi, come in «quando ebbe capito di aver sbagliato, chiese scusa a tutti e se ne andò». Tuttavia l’impressione è che il trapassato remoto non abbia nessuna intenzione di chiedere scusa per la sua complessità e nemmeno di andarsene del tutto.

C’è chi lo ha già liquidato, questo sì. Qualche anno fa il noto linguista Giuseppe Antonelli ha etichettato il trapassato remoto come «fossile grammaticale a tutti gli effetti», definendo irreversibile la sua scomparsa (o meglio, giocando in tipico stile antonelliano, «il suo trapasso») che nessuno piange. Come descrivere meglio di così il destino di questo tempo verbale?

Eppure lui, quel trapassato, che essendo remoto immaginiamo curvo sotto il peso degli anni, non demorde e continua a occupare saldamente il suo posto nelle grammatiche scolastiche (e negli incubi degli studenti), quasi fosse immortale. Quando se ne andrà? Malgrado si guardi al trapassato remoto come a una forma verbale in estinzione, di lui si parla ancora oggi, anche se con lui non si parla più.

Certo che a ben guardare il suo destino sembrava scritto fin dalle sue origini, se è vero che il primo significato di trapassato è «trafitto» e pure «defunto». Tremi allora anche il trapassato prossimo? No, lui ce la farà, fosse solo perché molto più malleabile e sempre a suo agio nei nostri discorsi. Non c’è invece più spazio oggi per il trapassato remoto: la nostra è l’epoca del futuro, o almeno del presente. Tutto ciò che è stato – e soprattutto se lo è stato molto tempo fa – interessa forse solo a pochi nostalgici.