Quest’estate sembra arrivato il momento opportuno per una visita al museo all’aperto Ballenberg di Hofstetten, fra Brienz e Meiringen, a qualche chilometro da Interlaken. Non siamo gli unici ad avere avuto quest’idea. Tra gli altri, un amico, con lieve ironia, mi dice che dedicherà le vacanze estive a quei luoghi che «ogni svizzero dovrebbe vedere almeno una volta nella vita»: il circuito non potrà trascurare lo Jungfraujoch, con il ghiacciaio dell’Aletsch, la Cappella Tell a Sisikon, il prato del Grütli ed infine il Freilichtmuseum Ballenberg. Una specie di pellegrinaggio laico in formato elvetico. Personalmente ritengo non trascurabile che la gita al Ballenberg coniughi qualcosa di attrattivo per i bambini con gli interessi culturali dei genitori. Perciò i piccoli visitatori vengono motivati con proposte di giri in giostra, corse in carrozza, o l’osservazione di ruote di mulini in funzione, mentre sono omesse con cura le finalità di studio.
Il Ballenberg infatti è certamente uno dei casi più emblematici della museologia svizzera, oltre che un passaggio obbligato della storia internazionale dei musei all’aperto. Una vicenda che spesso scaturisce dal tentativo di singoli personaggi di salvaguardare un contesto a repentaglio, che rischia di essere compromesso o addirittura del tutto cancellato. Capostipite di questo mondo e caso esemplare è lo Skansen di Stoccolma, aperto nel 1878 grazie all’idea di Artur Hazelius, maestro di scuola, appassionatosi ai temi del folklore e già fondatore del più tradizionale Museo Nordico di Stoccolma. In un secondo tempo Hazelius si accorge però che ci sono interi edifici – la prima è una torre campanaria – ad avere bisogno di tutela. Sono veri e propri documenti che non possono andare persi sulla via per la modernità poiché nella loro collocazione originale hanno perso la loro funzione. Quindi, già negli anni Novanta dell’Ottocento la collina su cui sorge il Museo Nordico – lo Skansenberget – è la nuova ambientazione di case tradizionali acquistate in tutto il paese e poi ricostruite lì, a Stoccolma. In un secondo tempo arrivano intere fattorie, mulini, officine. Tutto viene corredato dai mobili e dagli utensili originali. Un elemento fondamentale del progetto era inoltre il rapporto con la natura, cosicché si riportava la vegetazione locale che circondava questi edifici nel loro ambiente originale, si creavano fiumi e stagni, oltre a portare renne, bestiame da allevamento, alveari e altri animali. Si doveva avere l’impressione di «sgattaiolare in casa, mentre i padroni erano usciti per un attimo».
La formula ha immediatamente fortuna, dapprima negli altri Stati nordici e in seguito altrove. Ben presto tutte le capitali dei paesi limitrofi si dotano di un proprio museo all’aperto: Copenhagen nel 1897, Kristiania (Oslo) nel 1902 e Helsinki nel 1907, sull’isola di Seurasaari. In altri paesi, sulla via dello storicismo, si era già tentato di ricreare interi contesti del passato: è per esempio il caso del borgo medievale al Parco del Valentino di Torino, dove erano stati eretti edifici nei vari stili architettonici tipici dei castelli piemontesi e valdostani del XV secolo, in occasione dell’Esposizione generale italiana del 1884. Ma i casi nordici si discostavano da questi tentativi per due elementi fondamentali: la tutela degli edifici originali e una visione d’insieme del contesto nazionale.
Nei decenni successivi, in alcuni paesi l’idea fu purtroppo messa al servizio delle idee nazionaliste, tanto che anche il Nazionalsocialismo tedesco si sarebbe servito di questa fonte per celebrare le origini ariane e le «sane tradizioni di una volta» al Museumsdorf di Cloppenburg, che veniva regolarmente usato per raduni di partito.
È invece negli Stati Uniti che l’idea degli open-air museums ha uno sviluppo interessante nel periodo fra le due guerre: qui furono i capitali privati a permetterne la creazione e l’accento fu messo sull’interpretazione piuttosto che sulla conservazione. A tutt’oggi, in molte di queste istituzioni vengono impiegati attori per l’«historical reenactment» di vicende o di stili di vita del passato. Il fine educativo e la costituzione di un comune senso nazionale prevalsero fin da subito. Un esempio emblematico è il Greenfield Village, poco fuori Detroit, fondato nel 1929 da Henry Ford: nato per salvaguardare la fattoria della sua infanzia, in un secondo tempo si trasformò in un vero centro per raccontare la vita in America sin dai tempi dei primi coloni. I museologi europei in visita rimasero estasiati davanti all’inarrivabile chiarezza di presentazione e alla capacità di coinvolgere ogni tipo di pubblico. Altro stile, ma uguali finalità, per il museo all’aperto di Colonial Williamsburg, finanziato da un altro grande magnate americano, John D. Rockefeller, che rievocava il periodo della guerra d’indipendenza.
Dal periodo post-bellico in poi i musei all’aperto conoscono un sempre più rapido sviluppo ed è in questa fase che si inserisce il Ballenberg. Benché proposte per un’istituzione simile fossero già state fatte nel periodo fra le due guerre, fino agli anni Sessanta non ricevettero molta attenzione, anche perché le autorità cantonali per la cura dei monumenti e le associazioni per la protezione della memoria rurale del paese preferivano che gli edifici significativi venissero conservati in loco. Sostenevano che la Svizzera era sufficientemente piccola per permettere a chi lo desiderava di viaggiare da un punto all’altro del paese per osservarne le diverse tradizioni. Fu lo storico dell’architettura vernacolare Max Gschwend – peraltro autore di un importante studio sulla Val Verzasca – ad impegnarsi per superare queste opposizioni. Sarà lui il primo direttore scientifico dell’istituzione, a partire dalla fondazione nel 1968, anche se l’apertura avverrà solo dieci anni dopo.
Oggi il Ballenberg merita senza dubbio una visita. Ogni regione si trova rappresentata con edifici che sono stati accuratamente smontati e ricostruiti come da originale: lo spazio dedicato al Ticino è considerevole. D’altronde, la collocazione a Hofstetten, nel centro esatto del paese, non è affatto casuale, ma voluta per sottolineare che l’istituzione rappresenta l’intera Svizzera. Forse però l’aspetto più interessante del Ballenberg, che lo distingue rispetto ad analoghi luoghi in altre nazioni, è il centro dell’artigianato, dove tutti i giorni è possibile seguire corsi nei più svariati ambiti, dalla costruzione di muri a secco a quella di sci e snowboard, dalle coperture lignee a scandole alla raccolta delle erbe selvatiche. Questa commistione fra tradizioni del passato e contemporaneità è davvero l’elemento che oggi rende più vitale il Ballenberg ed è forse un insegnamento che il turismo in Ticino potrebbe trarre dalle istituzioni della Svizzera Centrale. Aspetti della nostra cultura e del nostro saper fare che ci paiono inutili stereotipi potrebbero forse così essere convertiti in interessanti aspetti da riscoprire per noi e da svelare ai turisti.