La Svizzera all’epoca del dagherrotipo

Un’esposizione al MASI racconta i primi cinquant’anni della fotografia in Svizzera
/ 20.06.2022
di Giovanni Medolago

È una sala buia che accoglie il visitatore della mostra Dal vero. Fotografia svizzera del XIX secolo. Forse per proteggere i dagherrotipi più sensibili, per vedere i quali bisogna cercare qualche interruttore. E fiat lux! Quasi una metafora di ciò che si scoprirà al LAC: una miriade di personaggi più o meno illustri (il Generale Dufour che ha lo stesso sguardo attonito sia quando è colto a cavallo in una parata ufficiale, sia quando si mette in posa per un ritratto); e poi gli affascinanti paesaggi del nostro Paese, non solo quelli delle località più celebri tipo Zermatt o Davos, bensì anche qualche rocca sperduta di cui talvolta ci parla brillantemente su questo giornale il collega Oliver Scharpf. 

Molti dagherrotipi ricordano la prima immagine fissata da Nicéphore Niépce nel 1826 (Vista dalla finestra a Le Gras). L’apparecchiatura estremamente ingombrante e i lunghi tempi d’esposizione – si stima che a Niépce occorsero più di 8 ore per realizzare la prima fotografia della Storia! – costrinsero i pionieri a concentrarsi su qualcosa di immobile come Place de la Lande a Le Brassus, la Torre Maîtresse a Ginevra o il castello di Schadau, sulle rive del lago di Thun con vista sull’Aar, il Rigi e la Jungfrau. Le scoperte tecniche accelerano il diffondersi di un mezzo che rapidamente soppianta la pittura: se prima solo i ricchi potevano permettersi un ritratto mettendosi in posa davanti a tavolozze e pennelli, ecco che anche i poco abbienti possono esporre la loro effigie nel salotto buono di casa. Si chiama un fotografo anche quando è troppo tardi, sul letto di morte di un caro estinto, pur di conservarne immagine e ricordo: non a caso il dagherrotipo venne definito «uno specchio dotato di memoria». C’è chi si limita a usarlo per una semplice documentazione/testimonianza (la già citata Zermatt dopo il terremoto del 1855) e chi invece, come Sebastian Staub, tenta qualche sperimentazione con un’inquadratura nell’inquadratura, dove la porta spalancata di Casa Butini si apre poi sul giardino retrostante, offrendoci un’intrigante mise en abîme: che ci sarà mai là tra erbe e piante incolte?

Nel contempo – siamo a fine ’800 – nasce il turismo, che va incoraggiato e, diciamo noi oggi, sponsorizzato. Édouard Quiquerez presenta villaggi, castelli e vedute mozzafiato del «suo» Giura. Qualcuno coglie in anticipo l’importanza che assumerà il traforo ferroviario del San Gottardo, documentando i lavori in corso a Göschenen e ad Airolo. Lo sviluppo delle infrastrutture di trasporto elvetiche va di pari passo con la semplificazione del processo fotografico, grazie all’avvento dei negativi su vetro e della stampa all’albumina. Stanno per concludersi les excursions dagueriennes, i tempi d’esposizione si accorciano e così, con un semplice click, si possono ad es. ritrarre gli escursionisti sul ghiacciaio del Rodano, dove spicca un’elegante signora con la gonna e armata altresì con quello che sembra più un ombrellone d’un semplice ombrello! Roba da ricchi anche questa, ma c’è tuttavia chi si dedica pure ai meno fortunati: Carl Durheim ci offre nove ritratti di altrettanti poveracci rimasti senza casa, e fa tenerezza quello di un uomo che si porta appresso la gabbia col suo canarino. Nascono gli ateliers di posa: elegantissimo quello dei Fratelli Taeschler a San Gallo. Meglio ancora fa Jean Geiser che parte da La Chaux de Fonds per aprirne uno a Algeri, dove si dedica soprattutto alla ritrattistica, puntando su più o meno discinte fanciulle che all’epoca non suscitarono fortunatamente le ire degli estremisti islamici.

Nel lungo percorso (oltre 400 le opere esposte, da quelle micro ai grandi trittici) allestito al LAC in collaborazione con la Fotostiftung di Winterthur e Photo Elysée di Losanna, c’è spazio anche per un paio di pionieri della Fotografia ticinese. Torna Angelo Monotti, partito da Cavigliano per cercar fortuna (poi trovata!) a Livorno, cui il MASI aveva già dedicato una «personale» nel 2013. E infine l’onsernonese Gaudenzio Marconi, il quale scese da Comologno per sbarcare a Parigi, dove le sue immagini gli valsero il titolo ufficiale di «Photographe de l’Ecole des Beaux Arts parisienne». S’interessò soprattutto ai nudi artistici: molti di questi saranno utilizzati dallo scultore Auguste Rodin, in particolare per L’âge d’arain.