Naturae - Ouverture, spettacolo di Armando Punzo (foto Stefano Vaja)

Un momento dello spettacolo Parole lievi (foto Stefano Vaja)


La stanza dei miracoli di Armando Punzo

Un’immersione nella realtà della Compagnia della Fortezza, la compagnia teatrale creata nel carcere di Volterra dal regista napoletano, al Teatro Sociale a Bellinzona dal 13 al 16 febbraio per condurre un laboratorio
/ 10.02.2020
di Matteo Bellinelli*

Sono diciassette anni che mi chiedo come mai in prigione il caffè (rigorosamente preparato con la «napoletana») sia migliore di quelli che si bevono al bar. Me lo chiedo ogni volta che salgo il ripido acciottolato che porta alla Casa di reclusione di Volterra, detta «La Fortezza», e che penso al piacere che proverò, superati i controlli, le porte e i cancelli del carcere, a bermi un caffè in compagnia di un gruppo eterogeneo e affiatatissimo di detenuti, tutti ergastolani e lunghe pene: uomini discreti ma affettuosi, che affidano a un prolungato abbraccio il piacere di rivederci, a distanza di mesi ma nella costanza degli anni.

Nessun dubbio, il miglior caffè dell’anno è sempre quello che preparano loro, con tutta la cura e la perizia necessarie. Non serve nemmeno essere napoletani, per prepararlo bene, basta aver avuto il tempo per impararne il segreto. E qui, il tempo è sospeso. Qui consumano i molti anni della loro pena uomini che provengono dal Sud di tutto il mondo (Africa e Nord Africa, Oriente e Medio Oriente, Sud America, Europa dell’est): e, soprattutto, dal sud dell’Italia. Le celle sono abitate in larga parte da campani, calabresi, siciliani, da uomini che prima di essere rinchiusi in questa prigione hanno conosciuto solo miseria e criminalità, discriminazione e ignoranza. Pochi i libri letti, nessun rapporto con arte, cultura, spiritualità: che certo non pensavano di trovare qui, varcando la soglia di un carcere antico che, per molti di essi, ora nasconde in sé una speranza, una chiave per il futuro.

A offrirgliela è un altro napoletano, il napoletano più anomalo che abbia mai incontrato, il più discreto e riflessivo, il meno loquace e teatrale. Si chiama Armando Punzo e di professione fa il regista teatrale. Si è incamminato per la prima volta lungo la salita che porta alla fortezza nel 1988. Ha bussato alle porte del carcere per proporre alla direzione un’idea stramba: fare teatro con i detenuti. Non per offrire loro un’opportunità di ri-socializzazione: no, proprio per fare teatro. Un’eresia? Questo napoletano è un tipo tosto, non si è lasciato scoraggiare o intimidire dall’aria che tirava in prigione e, spalleggiato da un direttore illuminato (onore a Renzo Graziani), il teatro in carcere Punzo ha davvero iniziato a farlo.

All’interno della fortezza medicea gli hanno attribuito uno spazio esiguo, un locale di tre metri per nove nel quale sono nati alcuni degli spettacoli più coraggiosi e originali del panorama teatrale italiano del dopoguerra, onorati con premi nazionali e internazionali che hanno fatto della sua «Compagnia della Fortezza» (come altro avrebbe potuto chiamarsi?) uno dei gruppi teatrali più affascinanti d’Europa. Compagnia sommamente instabile, proprio perché composta solo da detenuti: che possono essere trasferiti da un momento all’altro in un carcere diverso, o che, scontata la propria pena, ritrovano finalmente la libertà (concetto del tutto relativo, secondo Punzo: ci arriveremo). Abbandonando la Fortezza lasciano sguarnito il gruppo di attori che il regista, novello Sisifo, deve ricominciare a modellare a sua immagine e somiglianza giorno dopo giorno, detenuto dopo detenuto.

Per meritarsi la sala delle prove bisogna superare un pesantissimo portone che si apre rumorosamente su di una ripida scala di sasso: si varca un secondo portone, si raggiunge l’entrata vera e propria del carcere, dove si consegnano documenti e cellulare. Qui si schiude una porta di metallo cigolante, si percorre un piccolo cortile, si attraversa un cancello di sbarre, un secondo cortile e una terza porta, finché si è nel braccio del carcere che ospita il teatro. Ora mancano solo un cancello, due lunghi corridoi, un’ultima porta metallica e finalmente eccoci nella piccola stanza rossa dove tutto nasce. Un’isola che i detenuti che compongono la Compagnia (in numero variabile: ora sono una novantina, sui centocinquanta carcerati della fortezza) raggiungono scendendo dalle loro celle.

Al mio arrivo i più «anziani» non nascondono il piacere di rivedermi, né la voglia di raccontarsi, sempre in modo discreto e riservato. Confesso che, seguendo la prassi di Punzo, a nessuno ho mai chiesto cosa li abbia portati qui, quale sia stato il loro reato e quale la pena. Nemmeno Armando lo sa, né mai lo chiede. O meglio, non viene subito a conoscenza dei loro segreti: poi la complicità, il legame personale e spesso affettivo che nasce tra regista e attori è tale da portarli ad aprirsi, a fidarsi e confidarsi. Anche a me alcuni detenuti, col tempo, hanno parlato della loro «vita passata» (dicono proprio così): lo fanno perché quello è, appunto, il passato, e per quanto drammatico possa essere stato ora sono persone profondamente diverse, che il teatro ha contribuito a cambiare. Spesso non senza una dolorosa e impietosa resa dei conti con se stessi.

A questi uomini in apparenza rudi Punzo propone un cammino fatto di disciplina, di un ulteriore spazio chiuso, di altro tempo sospeso. La prima impressione è che fare teatro in carcere aggiunga prigione alla prigione: ma il vero nemico, qui, è il «quotidiano», la presunta normalità. Negli spettacoli della Compagnia c’è finzione, ma non c’è illusione: il teatro di Punzo scava nel profondo dell’animo umano senza mai scendere a compromessi. I testi che a poco a poco inizia a leggere ad alta voce in sala prove li scova nei meandri di libri spesso dimenticati che racchiudono un senso di urgenza, che implicano la scelta faticosa di un ritorno alla rappresentazione teatrale vissuta come necessità espressiva insopprimibile. «Condannati, dice il regista, a fare un lavoro che sappiamo inutile». Sisifo, appunto.

Dalla ricerca sui libri che regista e attori consumano tra le mani, giorno dopo giorno, nasce un mondo di letture condivise, di analisi polifonica di testi, emozioni e racconti: un momento di introspezione che, un poco alla volta, si espande e coinvolge le loro stesse esistenze. Punzo è preda di dubbi, crisi e interrogativi profondi: che non nasconde alla sua Compagnia, anzi, li esterna e li articola, mettendosi a nudo di fronte al compito che si è assegnato. Forse è proprio questo che seduce i suoi attori: lo sentono vicino, come loro fragile e bisognoso di risposte e di orizzonti inesplorati. Da ogni crisi nasce un nuovo spettacolo, ma la crisi non ne è mai il tema. Armando sostiene che gli interessa solo chi si sente libero in carcere, «chi riesce a passare come un pensiero attraverso le sbarre della prigione. Condivido con i detenuti-attori la loro sensazione, quella di sentirsi sempre fuori posto, spostati un po’ in qua o in là, che non c’è mai un posto dove posso veramente stare».

Uomini solidi come querce, spesso tatuati all’inverosimile, si chinano silenziosi sulla Querelle o i Negri di Genet, sui tormenti di Pasolini, sull’inattendibilità dei racconti di Borges e li fanno intimamente loro. In giornate più luminose nella sala prove risuonano per voce degli attori frasi quali: «Non ho un solo capello bianco nell’anima», «Hanno di nuovo decapitato le stelle e insanguinato il cielo», «Se tu aspiri a giungere a questo mare, perché ti perdi in una goccia di rugiada?» Non importa chi ne siano gli autori: importa che la curiosità dei loro pensieri e le loro emozioni si integrino con le inquietudini del loro regista, che egli se ne possa nutrire per avanzare nella ricerca del tema e della drammaturgia dello spettacolo. Una ricerca che talora sembra arenarsi, giorni interi «buttati» alla ricerca di una via d’uscita da dubbi e incertezze che svuotano tutti di energia ed entusiasmo.

Poi, improvvisamente, basta una sola frase letta o detta e il cammino riprende, il percorso si fa più chiaro, la luce si avvicina. Lo spettacolo che la Compagnia proporrà al pubblico (sull’arco di una sola settimana, a fine luglio: per palcoscenico il cortile sottratto all’ora d’aria degli altri detenuti del carcere) è, dunque, il risultato di una ricerca, di un «filo» da scoprire e inseguire con ostinazione e un po’ di follia condivisa. In realtà, anche se per anni Punzo ha affidato la scena solo agli attori, nei suoi spettacoli tutto è profondamente suo. Per anni i corpi dei detenuti sono stati un elemento fondamentale e dirompente della messa in scena: la nudità di corpi possenti e provocatori, la loro fisicità ferocemente esibita era una delle caratteristiche delle sue regie.

Ora i corpi degli attori sono velati: una ricercata originalità dei costumi ha sostituito la forza fisica, gli attori sono immersi in scenografie favolose e illogiche, abitate da figure extra-ordinarie dai costumi eccentrici e coloratissimi. Punzo si mette al centro della scena, è «deus ex-machina» anche sul palcoscenico di un’opera sì corale, ma profondamente ispirata dal suo universo artistico, nel quale le emozioni personali, il suo tormentato cammino interiore sono sempre più apparenti, quasi dichiarati. Negli anni il suo si è trasformato da teatro dei personaggi in teatro delle idee. Alla domanda «cosa fate durante le prove» Armando risponde: «Costruiamo un habitat mentale. Lavoriamo perché gli attori si lascino progressivamente attraversare da un’idea fino a sfuggire di mano a se stessi, per ritrovare fiamme d’istinto. Sono convinto che la grande partita di una vita cominci sempre dalla scontentezza di sé. Il teatro nasce dal fatto che io non mi vado bene e cerco altro».

Quando mi capita di chiedergli se, di fronte a chi e quanto lo ostacola in mille modi, talora non si senta stanco e sfiduciato, Punzo risponde che a smettere non pensa proprio, ma che una paura ce l’ha: «Perdere la magia di un linguaggio. Per me sarebbe la morte».

Confortato da queste parole, non vedo l’ora di risalire la china che porta alla Fortezza, di sentire richiudersi alle mie spalle porte e cancelli, di gustarmi di nuovo il vero caffè e i primi abbozzi dello spettacolo che sta nascendo. Rinchiuso nella sala che Armando chiama «la stanza dei miracoli», non ho idea di dove tutto questo mi trasporterà. So però che sarà un viaggio oscuro e profondo, ricco di incertezze e di stupore. Lo sentirò dirmi: «Non sono più sicuro di nulla, ma non vorrei assolutamente tornare indietro», e mi sentirò di nuovo a casa.

* Matteo Bellinelli, regista e giornalista, nel 2003 ha realizzato un documentario sui primi quindici anni di vita della Compagnia della Fortezza, Nella tana del lupo, diffuso dalla rubrica «Storie» della RSI nel 2004.