È cosi spesso in Ticino, Giulia Napoleone, che praticamente è di casa. Definita «la signora della grafica», l’artista italiana, oggi ottantasettenne, vive in terra etrusca, a Carbognano, un piccolo paese della Tuscia Viterbese. Con le diverse tecniche artistiche a cui si affida riesce a creare opere in cui lo spazio, scandito da stratificazioni di piccoli segni governati da un rigore matematico, diventa una trama cromatica intrisa di luce e di poesia. Accanto all’acquerello, al pastello e alla china, la Napoleone trova nell’incisione il mezzo espressivo a lei più congeniale. Fino alla fine di giugno, presso il centro culturale Areapangeart di Camorino, i suoi lavori dialogano con quelli di Loredana Müller e di François Lafranca. Uno scambio a tre il cui punto d’incontro è la visione della natura come continua riprogettazione vitale. I pastelli dai blu intensi della Napoleone scambiano ritmi e profondità ora con le carte della Müller, tracce del soffio vivificatore del creato, ora con le sculture di Lafranca, pietre silenti che paiono avvolte da un’aura quasi sacrale: tutte opere nate dal medesimo approccio alle materie prime intese come elementi fondamentali del vivere.
Partiamo proprio dalla rassegna di Camorino. Come si lega il suo lavoro a quello degli altri due artisti presenti?
Con Loredana ho un rapporto di grande stima e amicizia. Ci confrontiamo da anni e abbiamo una sensibilità molto simile. Con François, invece, è stata una bellissima sorpresa. Ci siamo conosciuti circa quarant’anni fa ma come artista l’ho scoperto solo di recente, trovando la sua arte molto affine alla mia. Ciò che unisce il lavoro di tutti noi è un profondo legame con la natura. Proviamo un forte senso di appartenenza nei suoi confronti. Non ci limitiamo a osservarla ma abbiamo un modo di viverla dall’interno. La sentiamo come qualcosa che abbiamo dentro, che fa parte del nostro essere e che viene sempre fuori, anche in maniera inconsapevole. I suoi pastelli esposti in mostra, realizzati su carta fabbricata a mano da Lafranca, sono degli omaggi ad alcuni dei poeti da lei più amati.
Qual è il suo rapporto con la poesia?
La poesia è una costante della mia vita. Ricordo che quando ero fanciulla, a Pescara, la città dove sono nata, dopo la guerra il sindaco aveva aperto le porte della biblioteca comunale ai ragazzini. Su un grande tavolo avevano messo per noi tanti libri di tutti i tipi. Io ero sempre lì. È in quell’occasione che ho scoperto la poesia. Leggevo le strofe che più mi affascinavano, le trascrivevo e le imparavo a memoria. Mi entravano dentro. Ho sempre frequentato tanti poeti e la mia visione del reale è sempre stata mediata dalla poesia.
Lei lavora con diverse tecniche espressive. Quando e come ha iniziato ad appassionarsi all’incisione?
Ho iniziato con i pastelli, gli acquerelli e le chine. Ho usato anche gli oli, che però a un certo punto ho abbandonato. Poi nei primi anni Sessanta ho scoperto l’incisione, in particolare le modalità d’incisione diretta, come il bulino, la puntasecca, il punzone e la maniera nera. Quello che mi affascina è il legame con la ricerca tecnica, il corpo a corpo con il metallo, la resistenza della materia. L’incisione è stata il mezzo ideale per le mie sperimentazioni perché mi ha dato la possibilità di dar vita ad aggregazioni di segni sempre nuove.
Come ricercatrice e come docente ha frequentato la Calcografia Nazionale di Roma, lavorando a fianco di maestri come Guido Strazza. Qual è la posizione attuale dell’incisione nel sistema dell’arte contemporanea?
Credo che, paradossalmente, l’incisione sia stata rovinata dagli artisti stessi. Nel secolo scorso molti la utilizzavano per riprodurre dipinti, svilendo e togliendo valore a questa tecnica. Era un modo per realizzare molte opere e buttarle sul mercato. Oggi è sicuramente un’arte di nicchia perché è faticosa e richiede tanta applicazione e costanza. Nella mia esperienza di insegnante posso però dire di aver incontrato tanti giovani molto capaci che si sono appassionati all’incisione con ottimi risultati. Certo è più difficile per un incisore conquistare una certa visibilità fuori dal circuito specialistico, tuttavia è un lavoro estremamente affascinante e ci sono scuole molto valide dove potersi formare.
Nelle sue opere ha rivolto il suo interesse ai passaggi cromatici e al ritmo compositivo della linea e del segno. Quali artisti hanno influenzato il suo lavoro?
Amo molto Giorgio Morandi, che ho avuto modo di conoscere di persona nel 1958. Delle sue opere mi hanno suggestionato le atmosfere sospese e soprattutto la materia che si fa luce attraverso l’intreccio di segni. Un grande amore del mio passato è stato anche Georges Seurat, di cui ho visto tanti dipinti in Olanda e in America. E poi Alberto Burri, con i suoi lavori totalizzanti. Tema centrale della sua indagine artistica è proprio la riflessione sulla luce… Cerco la luce con tutte le tecniche. Accosto e addenso segni creando dei reticoli impalpabili dove la luce diventa una sorta di fluire costante e dinamico. Nei pastelli presenti a Camorino questo procedimento è ben visibile. Attraverso l’intreccio di punti, di forme e di linee ottengo delicate modulazioni chiaroscurali intrise di luminosità.
Cosa incarna nei suoi lavori questa contrapposizione?
È un dialogo tra due estremi, tra due forze antitetiche, tra ordine e caos. Nell’aggregare i miei segni mi muovo sempre dal bianco totale, il massimo della luminosità, al nero assoluto. La compenetrazione di questi due elementi mi dà la possibilità di esprimere le vibrazioni che cerco. È così che riesco a catturare la luce e a far palpitare le superfici.
Per alcuni anni ha insegnato in Siria all’Università di Aleppo. Quale significato ha per lei il viaggio?
Il viaggio è una mia condizione. Una necessità. Per me non è solo uno spostamento da un luogo all’altro, ma una vera e propria ricerca. Mi preparo sempre in modo accurato per un viaggio perché quello che mi piace è anche ciò che precede la partenza. La mia esperienza in Siria è stata meravigliosa. Sono stata costretta a lasciare quel Paese per via della guerra, poiché era diventato pericoloso. Gli anni trascorsi in quella terra sono stati indimenticabili e se potessi ritornerei.
Il Museo Villa dei Cedri di Bellinzona custodisce un fondo di sue opere. Cosa la lega al Ticino?
L’ho frequentato fin da bambina, con mio padre. Nel mio immaginario ho sempre ricondotto il Ticino a una terra di libertà, in contrapposizione alle vicende del fascismo italiano. Qui ho tanti cari amici e ogni volta che posso vengo anche per brevissimi momenti tanto da essere soprannominata «Giulialampo». Il Fondo al Museo Villa dei Cedri è stato fortemente voluto dall’ex direttore Matteo Bianchi. È una donazione che ho fatto nel 2001 costituita circa da un centinaio di opere tra acquerelli, inchiostri, pastelli e incisioni. Un modo per sentirmi ancora più vicina a questa terra che tanto amo.