È venerdì mattina e sono in viaggio sull’autobus che da Tel Aviv porta a Gerusalemme per intervistare l’avvocatessa Leah Tsemel. Sono meno di 60 chilometri quelli che separano le due città, ma la percezione è di passare da un universo all’altro i cui mondi non si intrecciano mai. L’autista palestinese del taxi fatica a riconoscere l’indirizzo di Gerusalemme est che gli mostro sul cellulare e, immediatamente, mi vergogno della mia ancora imbarazzante ignoranza dell’arabo che, pur essendo la seconda lingua del Paese, non è padroneggiata dalla maggior parte degli ebrei israeliani. Le iniziali difficoltà linguistiche non ci impediscono tuttavia di intrattenere un’interessante conversazione sulla politica e le ragioni della mia visita, che si conclude con lo scetticismo del taxista in un possibile cambiamento nonostante gli sforzi «dei pochi ebrei coraggiosi».
La prima volta che vidi Tsemel di persona fu nel 2019 al festival Docaviv, in occasione della proiezione del film documentario Advocate, di cui è la protagonista. Quando il pubblico si alzò in piedi per applaudirla mentre saliva sul palco mi scesero le lacrime per la commozione e, anche oggi, non nascondo una certa emozione in vista di quest’incontro. Giunta finalmente a destinazione realizzo di trovarmi a pochi metri dal famoso Hotel American Colony e mi accingo a salire quattro piani di scale di un edificio apparentemente deserto e discretamente squallido. Benché non sia in grado di leggere le insegne, la fila in attesa di ricevere udienza mi fa comprendere di essere arrivata nel posto giusto e, come se fossi stata catapultata sul set di Advocate, mi accomodo anch’io nella sala d’aspetto del celebre ufficio di Leah Tsemel. Mentre clienti e collaboratori entrano ed escono da quello che deve essere il suo studio, chiacchiero con una bella ragazza dalle lunghe unghie colorate di viola, venuta a presentare la propria candidatura come praticante legale. Mi racconta di essersi laureata in giurisprudenza e di aver sostenuto anche lei, come me, gli esami dell’Ordine degli Avvocati di Gerusalemme per l’equiparazione delle lauree conseguite all’estero. Il paradosso è che, mentre io ho studiato a Milano, lei si è laureata presso l’Università palestinese di Birzeit a pochi chilometri da qui. Mi complimento per il livello del suo ebraico che scopro aver imparato lavorando come manicurista in un centro commerciale di Gerusalemme ovest. Lei invece è di Gerusalemme est e questo significa che non detiene la cittadinanza israeliana, ma ha diritto solo alla carta di identità che conferisce lo status di residente. La segretaria invece riconosce il mio accento italiano e mi racconta entusiasta di aver lavorato come educatrice presso un’organizzazione italiana attiva nei campi profughi e di aver perciò trascorso intere estati in Emilia Romagna, delle quali serba in particolare il ricordo delle punture di zanzara. Finalmente arriva il mio turno e varco anch’io la porta dello studio dove, dietro la scrivania, spunta una signora di bassa statura e dal temperamento energico la cui età anagrafica è tradita solo dalle rughe del volto. Ma chi è Leah Tsemel?
Nata a Haifa nel 1945 da genitori sionisti, dopo il servizio militare Tsemel si iscrive a giurisprudenza all’Università Ebraica di Gerusalemme. Saranno poi gli esiti della Guerra dei Sei Giorni, del 1967, a condurla all’attivismo politico e a improntare la sua controversa carriera legale. Da più di quattro decenni, infatti, i suoi clienti sono quasi esclusivamente palestinesi: uomini, donne e sempre più bambini, che vengono processati nei tribunali israeliani per presunti crimini che vanno dal lancio di pietre al tentato attentato suicida. Impavida e determinata, Tsemel è un personaggio scomodo per la maggior parte dei suo connazionali che, percependola come una minaccia, la definiscono una traditrice e persino un’ebrea antisemita.
Lei fa spesso riferimento agli eventi successivi al 1967 come fondamentali nel determinare la Sua identità politica e professionale. Potrebbe spiegarsi meglio?
Fino allo scoppio della guerra ero una tipica israeliana sabra, studentessa presso la facoltà di legge di Gerusalemme, allora una piccola cittadina universitaria. Alla vittoria israeliana seguì una grande euforia che contagiò anche me, felice e ingenuamente convinta che l’abbattimento di mura e confini si sarebbe tradotto in concrete opportunità di cambiamento nei rapporti con gli arabi verso una pacifica convivenza. Tuttavia dovetti presto ricredermi di fronte all’evidenza che non era la pace quella che Israele perseguiva, bensì l’ulteriore implementazione di una politica coloniale contrassegnata da un atteggiamento discriminatorio nei confronti dei palestinesi attuato attraverso la distruzione di interi villaggi, l’espropriazione di terre ed espulsioni degli individui stessi. Fu allora che iniziai a pormi dei dolorosi interrogativi, anche sulla differenza tra il 1948 e il 1967, parte delle risposte ai quali le trovai aderendo alla rivoluzionaria organizzazione socialista e antisionista Mazpen, fondata principalmente da fuoriusciti dai partiti comunista e socialista. Fu allora che sentii di dover prendere una posizione, e la scelta istintiva fu quella di comportarmi da essere umano. Sono molto orgogliosa di essere ebrea, e penso che molte delle mie azioni e gran parte della mia concezione morale siano basate su ciò che considero ebraismo, tuttavia in quelle circostanze, posta di fronte alla decisione se far prevalere la mia umanità alla mia «lealtà israeliana», scelsi la prima.
Leah Tsemel rappresenta palestinesi accusati di ogni sorta di reato, dal lancio di sassi agli attentati suicidi falliti. Cosa La spinge ad andare in tribunale quasi ogni giorno per combattere per i loro diritti?
Prima di tutto la rabbia, perché non posso accettare questa realtà, e anche una sorta di stupido ottimismo. Fin dall’inizio, quando diventai avvocato, fu naturale per me cercare di difendere i perdenti, i palestinesi. Ritengo che le persone sotto occupazione abbiano il diritto di combatterla come possono e, in qualità di israeliana, non penso di essere la persona giusta per criticarne moralmente le azioni, bensì cerco di stare loro vicino mettendo a disposizione la mia conoscenza della legge per difenderli e garantire loro un processo il più possibile equo. Inoltre bisogna anche considerare le conseguenze dell’occupazione dal punto di vista civile in termini di diritti, status identitari, ricongiungimenti familiari ecc.
Negli anni ha patrocinato casi molto complessi che hanno suscitato non poca rabbia nei sui confronti da parte del pubblico che L’ha criticata e persino minacciata di morte. Recentemente ha difeso anche Arafat Irfaiya accusato di stupro. Le succede di rifiutare casi specifici?
Non ho difeso Irfaiya, ma la famiglia, perché volevano demolire loro la casa, benché nello stupro non vi fosse alcun elemento di minaccia alla sicurezza nazionale. Semplicemente ogni pretesto è buono. Ho rifiutato pochissimi casi e tendenzialmente non rappresenterei un collaborazionista, ovvero un palestinese che collabora con Israele vendendo il suo popolo all’occupazione.
Ha menzionato il diritto ad un processo equo, ma come spiega che palestinesi ed ebrei residenti nei medesimi territori vengano giudicati in tribunali diversi? I palestinesi vengono condotti alle corti militari, mentre gli ebrei fanno riferimento ai tribunali civili del paese: si tratta di una disparità sostanziale?
Si chiama apartheid! In anni e anni di occupazione Israele è divenuta maestra nell’escogitare sofisticati espedienti di repressione e mortificazione di un’intera popolazione, a cominciare dalla separazione delle famiglie che indebolisce e avvilisce gli individui. L’intenzione è quella di vessare ulteriormente un nemico già molto fragile e liberarsene un po’ alla volta, per quanto possibile, oggi attraverso l’esilio, domani con una guerra e via dicendo. Se prima se ne parlava, negli ultimi anni non si sente nemmeno più discutere di pace, anzi dal Covid in poi la questione sembra essere sparita da ogni agenda politica.
A proposito di politica, recentemente ho intervistato A.B. Yehoshua sulla soluzione dello Stato unico e i risvolti pratici della sua attuazione. Tuttavia non posso fare a meno di constatare che la realtà fa propendere maggiormente per uno scenario di apartheid e pulizia etnica, piuttosto che per quello ottimistico coraggiosamente propugnato dallo scrittore. Lei cosa ne pensa?
Sono d’accordo purtroppo. Anch’io sostengo pienamente la soluzione di uno Stato unico, purché viga la piena uguaglianza di diritti, tuttavia onestamente credo che, se avessero la facoltà di decidere da soli, gli ebrei d’Israele sceglierebbero lo scenario più cruento. La maggioranza è cieca e sorda rispetto al suo stesso futuro e alla concreta possibilità di vivere qui, fuorviata dalla paura e dalle false promesse dello Stato che, dal canto suo, fa di tutto per impedire ogni soluzione. Lo vedo come il fallimento mio e dei miei amici nel cambiare l’atmosfera e la realtà in tutti questi anni.
Lei stessa, tuttavia, ha affermato di essere una donna ottimista, come si immagina allora il futuro? Cosa si può fare nel quotidiano per influenzare positivamente le coscienze verso un cambiamento?
Quello che già fanno quelli come noi, avendo cura di mantenere per quanto possibile le relazioni con la controparte, e gettando luce su tutte le ingiustizie e i torti, cercando di impedirli per quanto possibile. Un lavoro da formiche. Poi è fondamentale sostenere organizzazioni come B’tselem la cui presenza sul territorio è fondamentale anche per tutte le informazioni che raccolgono.
Tornando al lavoro dei giuristi, insieme ad altri colleghi alcuni anni fa ha vinto un caso storico presso la Corte Suprema israeliana sull’uso illegale della tortura. Tuttavia sono più numerose le cause che perde rispetto a quelle che vince? Comincia a esserci una giurisprudenza nel campo dei diritti umani?
Io non vedo i giuristi in grado di portare avanti qualcosa che si distacchi in misura sostanziale dal consenso, del resto gli stessi giudici sono scelti in base a esso, e sono loro ad avere l’ultima parola. Tuttavia il loro contributo è fondamentale per andare verso la normalizzazione, anche quando si conclude in un sostanziale insuccesso. Penso ad esempio agli sfratti di Sheikh Jarrah: pur avendo perso in tribunale, la battaglia è servita per trovare un compromesso. Inoltre, opponendoci formalmente alle ingiustizie, otteniamo pur sempre che esse vengano riportate agli atti, entrando così inevitabilmente a far parte della storia. È molto difficile modificare il sistema da questo punto di vista, e offese terribili vengono commesse dall’esercito, tuttavia i giuristi devono avere parte attiva perché sono ovunque e possono contribuire al cambiamento di atmosfera e coscienze.