La rivincita di Da Ponte

È anche al geniale librettista che dobbiamo la nascita della celebre trilogia di Mozart
/ 24.08.2020
di Carlo Piccardi

Come succede nel cinema, dove la gerarchia creativa pone il regista al vertice mettendo in ombra sceneggiatori, musicisti e altri collaboratori, così nell’opera è il compositore a primeggiare (almeno a partire dal Settecento). Il librettista, a volte fondamentale per la definizione del relativo impianto drammaturgico, spesso è ignorato. Anche quando ci troviamo di fronte a qualche eccezione, ad esempio al contributo riconosciuto di Lorenzo Da Ponte alla celebre trilogia di Mozart (Le nozze di Figaro, Don Giovanni, Così fan tutte), una sua chiara messa a fuoco è assente. È luogo comune ritenere la collaborazione tra i due artisti come il risultato di una miracolosa congiunzione di intenti. In verità essa è piuttosto il risultato di un rapporto di complementarità equilibrato come in due facce della stessa medaglia.

Mozart è uomo del Settecento penetrato nei principi progressivi. Lo dimostra la sua adesione alla massoneria e la scelta di vita sganciata dalla corte, che lo portò a mettersi in gioco come libero professionista. Ma per molti versi egli si sottrae all’egida della ragione. Ne abbiamo testimonianza nel modo in cui in una lettera dall’Inghilterra critica Londra come «luogo dove i più non hanno religione» e da Parigi da cui comunica al padre la morte di Voltaire con l’asserzione: «quel birbo senza timor di Dio è crepato come un maiale – ecco la ricompensa».

Nulla di simile avrebbe affermato Da Ponte, da artista avventuriero che trovò nella disincantata cultura illuministica giustificazione alle forme libere e spregiudicate del vivere.

Tale diversità è poi ciò che nei tre capolavori operistici mozartiani ha determinato una ripartizione dei ruoli, non solo di competenza (l’uno librettista, l’altro compositore), ma anche ideologici (in relazione alla materia rappresentata). È tutta di Mozart la sottigliezza delle sfumature che tratteggia la natura dei personaggi, variegata e sfuggente al punto da corrispondere alle categorie della moderna psicologia. «Non so più cosa son cosa faccio / Or di fuoco ora sono di ghiaccio...» canta il paggio Cherubino ne Le nozze di Figaro.

Anche se predisposta dalle parole del libretto, è tutta del musicista la dimensione cangiante di questo amore adolescenziale, di desiderio colto allo stato puro. Ed è certamente pensando a quello che ne avrebbe ricavato Mozart al di là di ogni schema rappresentativo in termini di vibrante naturalezza, che Da Ponte accese il malizioso e ambivalente erotismo di Zerlina in procinto di essere sedotta da Don Giovanni con l’attacco «Vorrei e non vorrei / mi trema un poco il core...».

Viceversa è tutta di Da Ponte la precisione che regola l’azione drammatica. Non mi riferisco al senso dell’animazione, al brulicare di note che nella sfaccettatura sonora dà conto della dinamica (per non dire della frenesia) e dei tipi umani della moderna realtà urbana e borghese (del travolgente corso degli eventi) che è tutto di Mozart, ma alludo al lucido piano che la innerva. Una personalità scettica quale quella di Da Ponte non poteva certo rimettersi al senso del destino divino imperscrutabile. Sovrintendendo all’agitarsi dei personaggi della «folle journée» ne Le nozze di Figaro egli riconduceva invece i relativi atti e le conseguenti interazioni a una logica che veniva dal basso, dettata dai rapporti naturali.

Il succedersi di colpi di scena, di dubbi, d’inganni, di rivelazioni, ha una funzione e un’efficacia teatrali certamente, ma è soprattutto la rappresentazione di un’umanità che si confronta e si dibatte, osservata con distacco, quasi scientificamente e dove il tutto si risolve nel riconoscimento di una dinamica iscritta nell’ordine delle cose. È il frutto della cultura illuministica, pragmatica e concreta, impegnata a diradare le nebbie di ciò che si presenta come oscuro e misterioso. È Da Ponte in Don Giovanni a predisporre a Mozart l’inferno che alla fine inghiotte il grande peccatore, lasciando alla sua musica il compito di fremere in sintonia con la dimensione del demoniaco e del trascendente.

Ma è soprattutto Da Ponte a tenere le redini del dramma nel vero finale, in cui i personaggi superstiti, liberati dalla tensione, si riposizionano nella normalità del giorno per giorno (di Donn’Anna che idealisticamente chiede allo spasimante Don Ottavio di pazientare ancora, di Donna Elvira che si ritira in convento, di Masetto e Zerlina che vanno a casa «a cenar in compagnia» e di Leporello «all’osteria / a cercar padron miglior»). Qui prende il sopravvento lo spettacolo della vita comune che continua, dell’immanenza, secondo un programma dimostrativo che in Così fan tutte diventa un vero e proprio teorema.

Lì la scommessa del filosofo Don Alfonso sull’infedeltà iscritta nel comportamento delle donne apre un percorso predestinato, sottolineato dalla perfetta geometria dei movimenti delle tre coppie in gioco, mosse come in una partita a scacchi. Quella di Don Alfonso con la servetta Despina a gestire la macchinazione, la coppia delle due giovani (Fiordiligi e Dorabella, diversamente resistenti alla tentazione ma alla fine soccombenti), quella dei due amanti Guglielmo e Ferrando (a sorreggere insieme la convinzione nell’amore fedele, ma richiamati sconsolati alla realtà): «Fortunato l’uom che prende / Ogni cosa pel buon verso. / E tra i casi e le vicende / Da ragion guidar si fa».

È la ragione alla fine a vincerla sulla morale e a indurre Mozart stesso a cedere a Da Ponte in questo cinico dramma didascalico che a quest’opera ha valso il rigetto dell’Ottocento. A nulla è servita la grazia della musica di Mozart a farla accettare ad Hanslick e a Wagner, accomunati nel giudizio di libretto insulso, per non parlare di Beethoven che lo trovava frivolo dopo avere già ritenuto Don Giovanni un soggetto scandaloso.

Solo il Novecento, archiviando la pretesa borghese di affermare l’identità dei sentimenti nella loro purezza e nella loro saldezza, Così fan tutte è stata riscattata, anche alla luce del relativismo degli affetti e delle emozioni portato dalla psicanalisi.

In questo il tanto deprecato Da Ponte ha rivelato il suo grado avanzato e celebrato la sua rivincita, che però forse era indirettamente già avvenuta quando negli anni Venti dell’Ottocento i monaci di Grissau in Slesia e i benedettini del convento bavarese di Schayern ricavarono dalle opere di Mozart delle contraffazioni in forma di messa, dove al posto di «Ah che tutta in un momento» da Così fan tutte, si cantava «Alma redemptoris mater», mentre «Non mi dir, bell’idol mio» dal Don Giovanni si trasformava in «Ave Jesus qui sacratum». In questo caso ad attirare la loro attenzione fu la «spiritualità» (diciamo così) della musica di Mozart; ma in qualche modo essa veicolava anche l’etica laica del messaggio di Da Ponte, che allora era ancora in vita. Quale miglior rivalsa per questa affascinante figura di libertino!