Concorso

«Azione» mette in palio tra i suoi lettori alcune coppie di biglietti per il concerto di giovedì 6 febbraio al LAC di Lugano (20.30). Il Maestro Jérémie Rhorer dirigerà l’OSI e il pianista Alexander Toradze. Per partecipare all’estrazione seguire le istruzioni contenute nella pagina www.azione.ch/concorsiBuona fortuna!


La prima di Alexander

Il prossimo 6 febbraio al LAC Jérémie Rhorer dirigerà l’OSI e il pianista Alexander Toradze eseguendo brani di Glinka, Shostakovich e Cajkovskij
/ 27.01.2020
di Enrico Parola

«Quando debutto in una città o in una sala preferisco farlo suonando con l’orchestra, se poi al pubblico sarò piaciuto potrò tornare per un recital solistico; anche perché i tre quarti dei miei concerti sono con l’orchestra».

A questa motivazione personale se ne potrebbe aggiungere una squisitamente artistica per introdurre la prima volta di Alexander Toradze al LAC, dove settimana prossima sarà accompagnato dall’Orchestra della Svizzera Italiana e da Jérémie Rhoer nel secondo concerto per pianoforte di Shostakovich: del grande compositore russo il pianista georgiano è un interprete di riferimento assoluto, ha inciso e portato in tutto il mondo le sue pagine sinfoniche con pianoforte. Tecnica granitica e profonda conoscenza dell’animo e della storia russa, anzi sovietica, sono fondamentali per penetrare nell’intimo dell’opera di Shostakovich: nonostante scrisse questo brano per i diciannove anni del figlio Maxim, buon pianista, è evidente come la baldanzosa, quasi euforica vitalità dei due movimenti veloci esprima la gioia di poter comporre liberamente dopo che la morte di Stalin avvenuta quattro anni prima (1953) aveva allentato la censura sull’arte da parte degli organi del partito comunista.

Shostakovich nutriva un sincero desiderio di creare musica per lo Stato sovietico, ma ben presto si rese conto che quello Stato non voleva accettare nessuna forma d’arte che non fosse in grado di capire. Ad esempio la sua Lady Macbeth del distretto di Mzensk, fu tacciata nel 1936 di «formalismo piccolo borghese», accusa cui il compositore reagì sia chiudendosi in pagine di introversa malinconia (il secondo movimento del concerto ne è struggente esempio), sia puntando su un ostentato fervore nazionalistico, da cui nacquero le sinfonie quinta e settima, composta nella Leningrado assediata dai tedeschi.

Ma nel 1944, con la nona sinfonia, Shostakovich tornò a scontrarsi con l’ostracismo dei burocrati che non apprezzarono il carattere gioioso del brano («perversione formalista» fu l’insindacabile giudizio), attendendosi invece un monumento solenne dedicato alle vittorie di guerra russe. «La musica è o può o deve essere politica? Ci sono volte che probabilmente deve esserlo», riflette Toradze, nato nel 1952 a Tbilisi, oggi Georgia ma allora Unione Sovietica, «musica e musicisti non possono essere separati, quindi se non possiamo separare i secondi non possiamo isolare la prima. Non parlo di problematiche locali, partiti e fazioni: per politica intendo le grandi battaglie per le libertà, per uno spirito più libero e per aprire canali di comunicazione. Lasciare il proprio Paese e la propria vita alle spalle per andare in un nuovo Stato è in qualche modo un’azione politica; non voglio mettermi su un piedistallo, ma è quello che ho fatto anch’io, trasferendomi in America dove avevo vinto nel 1977 il Van Cliburn (concorso texano considerato il più selettivo al mondo, ndr.): era il 1983, ero in tournée con l’orchestra del Bolshoj e arrivato in Spagna chiesi asilo all’ambasciata statunitense; da lì poi andai negli States. E prima di me l’hanno fatto in Russia tanti grandi musicisti: una goccia dopo l’altra, il vaso si è riempito e qualcosa è successo: penso che ciò che è accaduto nel nostro Paese negli ultimi anni sia dovuto anche all’atteggiamento di tanti musicisti e artisti; ne sono certo e ne sono molto orgoglioso».

Oltre all’orgoglio c’è la gratitudine verso un destino «fortunato, da privilegiato: faccio quello che ho sempre voluto fare e ho una vita piena. Più che soddisfazione parlerei però della sensazione di aver fatto qualcosa di giusto, perché per arrivare dove sono ora i sacrifici e l’impegno sono stati enormi».

I primi anni in Russia (ha studiato al Conservatorio di Mosca) furono infatti tutt’altro che agiati: «Mi capitava non solo di esercitarmi, ma anche di esibirmi in pubblico su pianoforti difettosi, con alcune corde rotte; rimediavo come potevo, anche mettendo tra una corda e l’altra delle gomme di cancelleria. E mi ero talmente abituato a sedie con le gambe difettose che durante i primi tempi in America mi trovavo disorientato perché lì i panchetti erano perfetti». La sua descrizione della musica russa («è estremamente avvincente, drammatica e molto profonda perché trasmette emozioni umane potenti e riflette la storia del popolo russo») è la perfetta sintesi degli altri due brani in programma, l’ouverture dall’opera di Glinka Russlan e Ludmilla, e la terza sinfonia di Ciajkovskij, conosciuta come la Polacca.