La poesia senza tempo del bianco e nero

Festival  ◆  La bellezza e l’intensità dei film in bicromia che hanno caratterizzato questa edizione
/ 14.08.2023
di Nicola Falcinella

Se Barbie da settimane riempie le sale cinematografiche dominando i botteghini a suon di rosa, il 76° Festival di Locarno ha risposto con il bianco e nero dei suoi film più belli. Solo una coincidenza, ma forse una rivincita per la troppo spesso bistrattata bicromia del cinema delle origini. Se tante volte i potenziali spettatori reagiscono con «ah, ma è in bianco e nero», accompagnato da un timbro di delusione, è tempo di superare gli insensati pregiudizi, come pure quelli sulle durate ritenute eccessive.

I due film che si elevano sul resto della competizione sono in bianco e nero e durano intorno alle tre ore. Si tratta del filippino Essential Truths of the Lake di Lav Diaz e del romeno Do Not Expect Too Much From The End Of The World di Radu Jude. Due autori già premiati a Locarno - Diaz vinse il Pardo nel 2014 con From What Is Before – che si stagliano nel panorama internazionale odierno: se parlassimo di montagne potremmo inserire entrambi fra i 14 Ottomila della terra o quasi. Così (ora che ne scriviamo non conosciamo ancora gli esiti finali della manifestazione) auspichiamo che finiscano nel palmarès finale, ai piani nobili, soprattutto Jude che ha sfornato un film che rasenta il capolavoro.

Diaz non usa il colore e non se ne sente la mancanza nel suo cinema: il suo nuovo lavoro, per la cronaca relativamente breve rispetto alle pellicole da sette o otto ore che l’hanno reso famoso, è un poliziesco anomalo che si intreccia, per ambientazione e personaggi, con il precedente A Tale of Filipino Violence presentato neanche un anno fa a Venezia. Un film straziante, ma forse non privo di speranza, sulle Filippine messe alla prova dalla natura (i terremoti e i vulcani) e prostrate da decenni di violenze sistematiche. Il tenente protagonista, dalla dirittura morale e animato da un profondo senso di giustizia sociale, indaga sulla scomparsa nel nulla di una modella e attrice, Esmeralda, solo una delle troppe donne sfruttate e abusate, lottando con tutte le sue forze fino allo sfinimento.

Radu Jude segue le odissee quotidiane di Angela, autista di Uber e addetta al casting di una casa di produzione che collabora con società straniere, che corre senza orari nelle strade di Bucarest. Una vita così stressante che si addormenta ai semafori e l’unica evasione sembrano i video assurdi che posta sui social. Una delle tante trovate del regista è inserire nel film quasi una alter ego della donna, un’altra Angela protagonista di un film degli anni ‘80, questo a colori: queste immagini fanno insieme da flash-back, ricordo, specchio fino a un incontro rivelatore. Jude racconta lo sfruttamento capitalistico, gli incidenti sul lavoro, quelli che restano ai margini della società (ma che il regista evidenzia al rallentatore), usando in pari grado il ragionamento e la commozione: impossibile non restare travolti dalla sequenza senza sonoro delle croci poste ai lati di una strada in ricordo dei morti vittime di incidenti. Nell’immagine in pagina una scena del film, la scritta sotto l’orologio dice: «è più tardi di quanto pensi».

Pure il terzo big in gara Nuit obscure – Au revoir ici, n’importe où di Sylvain George usa il bianco e nero e lambisce le tre ore. Un documentario nella città di Melilla, enclave spagnola in Marocco, in passato luogo cruciale (si vede la casa dove abitò Francisco Franco giovane ufficiale a inizio carriera) e oggi tappa di tanti giovani che si fermano di passaggio diretti in Europa ma vi restano bloccati come in un limbo. George osserva da posizioni privilegiate e incredibili, usando e alternando abilmente la vicinanza e la distanza. Se i migranti verso l’Europa sono stati raccontati in tanti modi, raramente li si è visti così.

Dell’ondata in bianco e nero fa parte anche il documentario Voyage au Pole sud – Antarctica Calling di Luc Jacquet, presentato in Piazza Grande. Il regista de La marcia dei pinguini ha ritirato il Locarno Kids Award, espressione di una sezione in crescita, con le immagini della maestosità e della fragilità dell’Antartide, con una fotografia che lo mostra come fosse la prima volta (solo per un momento appaiono le sfumature azzurre del ghiaccio). È un film di viaggio personale, coinvolgente e mai retorico, che parla di scoperta e meraviglia e anche dell’ossessione di Jacquet per il Polo Sud nel quale ha viaggiato per oltre trent’anni.

Il Festival di Locarno è però sinonimo di novità e scoperta, così del concorso, segnaliamo il portoghese Baan di Leonor Teles, con la sua ricerca di identità, e l’ucraino Stepne di Maryna Vroda in un mondo di anziani che non hanno ancora chiuso i conti con l’Urss. La necessaria quota di cinema indipendente americano è coperta dalla buona commedia nera Lousy Carter di Bob Byington.