L’edizione di quest’anno e quelle che verranno saranno «nel segno della continuità» ci dice Matteo Campagnoli, tra i fondatori della manifestazione e ora – dopo la partenza di Vanni Bianconi – anche direttore artistico. In un panorama festivaliero letterario denso di appuntamenti nella Svizzera italiana – da quelli primaverili degli Eventi Letterari Monte Verità, di ChiassoLetteraria o del FestivalLibro di Muralto fino all’appuntamento autunnale con Piazzaparola – Babel da sempre anima vie, piazze, teatri e monti bellinzonesi in quel di settembre. Festival di traduzione intesa come «traduzione letteraria da una lingua all’altra ma anche, in senso metaforico, traduzione da un’arte all’altra e, in senso ancora più ampio, una traduzione legata al concetto di ospitalità, accoglienza, superamento di confini – spiega Matteo Campagnoli – Babel negli anni è rimasto fedele a e stesso, cioè all’idea di un Festival di letteratura e traduzione che metta in dialogo sul palco scrittori e traduttori. Per quanto possano variare, Babel indaga tematiche che restano legate a questo concetto di partenza. Volendo siamo meno liberi rispetto agli altri festival che hai menzionato e che tematicamente spaziano molto. Al tempo stesso esplicitiamo in maniera chiara la nostra identità».
A proposito di temi, grande protagonista della manifestazione di quest’anno, che metterà in luce il rapporto tra le arti, è la parola greca ekphrasis (da èkphrazo, descrivere con eleganza, composto da ek «fuori» e phràzo «parlare, descrivere»). A spiegarne significati e declinazioni nella serata di apertura di venerdì 16 settembre alle 19.00 all’Antico Convento delle Agostiniane a Monte Carasso sarà Nicola Gardini. La scelta, va da sé, non è casuale; classe 1965, Nicola Gardini è scrittore, poeta, traduttore, pittore e professore di Letteratura Italiana e Comparata all’Università di Oxford. Da poco per Garzanti è uscito anche Nicolas, il suo nuovo romanzo. Ma restiamo su ekphrasis, lo scrittore ci dà qualche anticipazione di quello che sarà il suo intervento: «intanto il plurale, mai nessuno lo sa, è ekphraseis. Ringrazio Matteo per l’invito che mi permette di rimettermi su cose che frequento da tanto tempo ma da un’angolazione nuova pensata proprio per il Festival. Ekphrasis è lo spazio letterario in cui il confronto tra due media molto diversi come la rappresentazione visuale e quella verbale si mettono in competizione. Il primo concetto di ekphrasis è quello di una descrizione molto dettagliata, in un secondo tempo, nelle opere letterarie diventa la descrizione di un’opera d’arte».
Per capire corre l’obbligo di fare qualche esempio concreto, uno lampante che subito ci richiama un’immagine chiara e nitida è la poesia Ode su un’urna greca di John Keats. Nicola Gardini però ci porta molto più indietro nel tempo: «la nostra tradizione occidentale comincia con un ekphrasis che farà scuola ed è lo scudo di Achille nell’Iliade, che poi verrà imitato da Virgilio nell’Eneide. Questi sono i capostipiti, in verità di ekphraseis è piena tutta la letteratura, non solo antica ma anche moderna». Per altri esempi vi rimandiamo alla serata bellinzonese, intanto c’è un altro aspetto legato al termine greco e al suo significato che il professore ci tiene a spiegare e nasce da una semplice domanda: «quale esperienza sta all’origine dell’istinto letterario, chiamiamolo poetico, il suono o la vista? È ovvio che la nostra – a iniziare da Omero – è una tradizione molto orale ma se guardiamo allo stesso poema dell’Iliade, la poesia è vedere o sentire? È rappresentarci con l’orecchio o con gli occhi? Questa è una cosa che non verrà mai risolta, la nostra letteratura sentirà sempre una grande nostalgia della visione e quindi tutti i grandi scrittori e le grandi scrittrici sentiranno un richiamo al visuale e lo vivranno in modi diversi».
Potremmo fermarci qui ma da un lato la riflessione sull’ekphrasis apre molteplici porte, dall’altra Nicola Gardini si è ormai appassionato al suo viaggio ecfrastico come se fossimo già alla serata d’apertura: «pensiamo alle ekphraseis contenute ne Alla ricerca del tempo perduto, un romanzo modernissimo che continua a riattivare – per esempio nel secondo volume dell’opera proustiana All’ombra delle fanciulle in fiore – il vecchio paradigma omerico della rappresentazione grafica attraverso le parole di opere d’arte». C’è ancora un’ultima questione, «quella antichissima del dovere del poeta, il dovere dello scrittore. Lo scrittore deve far vedere quello di cui parla. Questo è uno dei grandi insegnamenti della retorica antica, l’ekphrasis alla fine è un fatto sinestetico». Non abbiamo però fatto degli esempi al femminile, dove sono le scrittrici e le loro ekphraseis? «Sicuramente ci sono descrizioni delle opere d’arte nelle Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar, lì si pesca con facilità, poi sicuramente cercherò in Virginia Woolf però mi piacerebbe – questo non l’ho ancora fatto – andare a guardare qualcosa di più vicino. Amo moltissimo Alice Munro e voglio vedere se in uno dei suoi tanti racconti non ci sia un ekphrasis».
Alla fine, va detto, Babel non sarà poi soltanto strettamente legato alla dimensione ecfrastica ma si spingerà oltre o più semplicemente si chiederà «che cosa succede quando due arti entrano in contatto e come una cosa passa, filtra nell’altra» specifica Matteo Campagnoli, che riporta la nostra attenzione sul programma. Gli chiediamo allora di anticiparci qualche momento chiave magari con un occhio agli ospiti del panorama letterario svizzero. «II primo autore a cui ho pensato è stato Frédéric Pajak perché è un eccellente scrittore e un eccellente disegnatore. Ma ho pensato a lui anche per il modo particolare con cui mette assieme queste due cose, mi interessava scoprire come nel suo caso l’incontro tra due arti arriva a creare qualcosa di totalmente nuovo (tra l’altro L’orma editore ha appena pubblicato Ezra Pound chiuso in gabbia, la morte di Walter Benjamin, il terzo volume del suo Manifesto incerto). Poi ho cercato di coprire tutta la gamma partendo da uno scrittore come Jean Echenoz che scrive soltanto e per il quale però le altri arti sono un’influenza importante. Oppure Mario Martone, regista ma anche autore delle sue sceneggiature, quindi scrittore e poi regista non solo di cinema ma anche di teatro e di opera lirica».
A questo punto vien da chiedersi quale sia il loro atteggiamento dinanzi al foglio bianco nel momento in cui sono scrittori e nel momento in cui, invece, sono traduttori. «Sono due fogli bianchi diversi perché il foglio bianco della traduzione ne ha a fianco un altro che è già annerito quindi – per quanto possa essere difficile, a volte perfino disperante – ti dà una certa sicurezza». Nicola Gardini coglie al volo il pensiero di Matteo Campagnoli: «perché tu questo autunno lavori su Philip Larkin, giusto?» «Sì, farò il Meridiano di Larkin, uno dei miei poeti preferiti di cui però da sempre temo di fare la traduzione». Gardini dice di aver capito una cosa (soprattutto con il suo ultimo libro Nicolas) e cioè che «non ci sono appigli. Uno scrittore, un artista ha sempre l’idea che laddove ha deciso di andare, l’ha deciso anche perché qualcuno glielo ha indicato, cioè i suoi autori preferiti. Può essere, ci dice, ma poi a quel punto la strada finisce. Cioè Virgilio se ne va, ti volta le spalle, ti molla alla fine del Purgatorio. Scrivere veramente è il viaggio nel Paradiso cioè senza guida. Quando ho scritto Nicolas avevo tante cose da dire, però c’era il problema di sceglierle, ordinarle, e pensavo che i miei adorati Stendhal, Canetti e Isherwood bastassero. Niente da fare. La cosa ancora invisibile chiedeva di materializzarsi in un altro modo».
A proposito di autori preferiti in Nicolas più volte si parla della Dickinson che Gardini ha tradotto, cosa ne apprezza particolarmente? «La brevità, la tenerezza, l’amore per gli esseri invisibili, anche l’oscurità che però è sempre frutto di non capziosi ghirigori ma di una capacità visionaria nuova. Soprattutto l’invito a sintetizzare e quindi a portare l’universo su un tovagliolo». «A Babel ci sarà Aaron Schuman – interviene Matteo Campagnoli – un fotografo che ha proprio fatto un lavoro ispirandosi alla Dickinson e alla sua poesia che inizia così: “Di’ tutta la verità ma dilla obliqua”». Il tempo è scaduto, sui versi della grande poetessa statunitense ci salutiamo con un arrivederci a presto in quel di Bellinzona.