Per molti è il più importante pittore impressionista tedesco assieme a Max Liebermann e a Max Slevogt, per altri la sua pittura, in particolare quella degli ultimi due decenni, va invece iscritta a pieno titolo nell’ambito dell’espressionismo, per altri ancora la sua è una figura singolare, perfettamente in bilico tra tradizione accademica ottocentesca e modernità. In effetti, è molto probabile che in tutte queste definizioni ci sia almeno una parte di verità, anche se nessuna di esse ci dice veramente chi sia stato Lovis Corinth, artista tedesco nato nel 1858 a Tapiau nella Prussia orientale e morto nel 1925 a Zandvoort nei Paesi Bassi, al quale il Castello San Materno di Ascona dedica ora una mostra.
Ad apparire inconfutabile è il fatto che lo stesso Corinth, sia nei suoi testi teorici sia nella sua autobiografia, abbia sempre rivendicato con orgoglio e consapevolezza il radicamento della sua opera nella storia della pittura europea e in particolare in quel filone affermatosi nella seconda metà del Cinquecento che è rappresentato dalla pittura di tocco. Un filone che ha i suoi primi esponenti tra i pittori veneziani del tardo Rinascimento – su tutti Tiziano (quello dei toni cupi e delle pennellate sfatte degli ultimi anni) e il Tintoretto – e che poi nel Seicento si arricchisce di alcuni dei suoi migliori interpreti nei Paesi Bassi e nelle Fiandre, dove sono attivi alcuni dei più grandi maestri della pittura barocca quali Frans Hals, Rubens e Rembrandt. Sarà proprio nel corso di un viaggio in Olanda per studiare alcuni dipinti di Rembrandt e Frans Hals che Corinth morirà a causa di una polmonite non ancora settantenne.
Ma ai vertici della pittura di tocco seicentesca, come ebbe a riconoscere per primo Roberto Longhi, non può non figurare anche l’asconese Giovanni Serodine, in virtù degli altissimi risultati raggiunti nella fase finale della sua breve ma dirompente carriera. Purtroppo, quest’ascendenza genealogica della pittura corinthiana non sarà verificabile direttamente da chi avrà l’occasione di visitare la mostra di Ascona per la temporanea assenza dalla Chiesa parrocchiale di quella vera e propria «capsula di dinamite gettata in un fornello» che è la grande pala dell’Incoronazione della Vergine, capolavoro estremo del Serodine.
In ogni caso, le poche tele di Corinth presenti al Castello – si tratta infatti di una mostra che si concentra sulla sua opera grafica – fanno immediatamente capire che colui che le ha dipinte in un corpo a corpo furioso ed estenuante con la superficie pittorica non può che appartenere a quella genia di «pittori spadaccini» che abbiamo appena ricordato. Pittori che usano il pennello come una sciabola o un fioretto e la cui materia pittorica mossa e vibrante prende forma come se fosse prodotta da un rapido e intenso guizzare di stoccate, di affondi, di finte e di parate.
Va però anche detto, onde evitare fraintendimenti, che la pittura di tocco di Corinth non ha nulla a che vedere con il virtuosismo autocompiaciuto e un po’ lezioso del suo quasi coetaneo Boldini, non solo perché la sua materia è molto più densa e impastata, ma anche perché la sua visione è innervata da un realismo crudo e disincantato, spesso provocatorio, che non concede nulla alla piacevolezza e alla pruderie della morale guglielmina allora imperante. Non a caso, per i suoi nudi, che appaiono ancora oggi di una grandissima modernità e da cui trasuda una sensualità tutta terrena, Corinth è stato fatto oggetto di critiche anche feroci e di censure, e molte sue opere sono state incluse, post mortem, nell’elenco dell’arte degenerata stilato dal regime nazista.
Come detto, la mostra di Ascona è però incentrata essenzialmente sull’opera grafica dell’artista e, accanto ad alcuni dipinti, disegni, acquarelli e stampe, presenta soprattutto un nucleo importante di lastre originali provenienti da una collezione privata tedesca. Recuperate negli ultimi anni, dopo essere state date per disperse, le lastre provengono da un fondo più ampio appartenuto all’editore e mercante d’arte Walter Gurlitt con il quale Corinth aveva iniziato a collaborare nel 1914 in seguito alla rottura con il gallerista Paul Cassirer. Come editore, Gurlitt in quegli anni produsse un gran numero di volumi illustrati, cartelle e singole stampe di alcuni tra cui i più importanti artisti attivi in Germania, tra cui George Grosz, Alexej Jawlensky, Oskar Kokoschka e Alfred Kubin.
Corinth, che aveva praticato la grafica fin dai suoi esordi, cimentandosi con l’acquaforte, la litografia e la xilografia, negli anni in cui lavorò con Gurlitt, si dedicò soprattutto alla puntasecca. E in effetti è questa tecnica che non ammette errori o pentimenti quella che più si avvicina alla sua idea di pittura. Una pittura che nella sua fedeltà a generi come il nudo e la pittura di storia, rimane in qualche modo ancorata negli schemi della pittura accademica, ma che nel corso del tempo approda a una totale liberazione del gesto espressivo.
Nelle lastre esposte, quasi tutte lavorate a puntasecca, dove si coglie l’evidente ammirazione per Rembrandt che di questa tecnica è stato uno dei primi maestri, Corinth affronta tutto il ventaglio tematico della sua pittura: nudi, scene mitologiche, nature morte, paesaggi, ritratti e autoritratti. Particolarmente significativa la puntasecca L’artista e la morte II del 1916, che riprende una delle più celebri opere dell’artista: l’autoritratto con scheletro anatomico davanti alle vetrate del suo studio di Monaco realizzato nel 1895. Un’opera che con quel suo calare il simbolismo, ancora tutto letterario di un Böcklin, nella prosaicità antiretorica della quotidianità riassume perfettamente l’atteggiamento di fondo di Corinth.
Dopo l’ictus che lo colpì nel 1911, l’artista riprese più volte questo soggetto con la tecnica dell’incisione, in una progressiva accentuazione drammatica della scena che va di pari passo con la sempre più evidente emancipazione del ductus segnico rispetto alla fedeltà naturalistica dell’immagine, analogamente a quanto avveniva nei suoi dipinti.
È questa sostanzialmente l’eredità di Corinth, che sarà raccolta da autori quali Bacon, Freud e Baselitz e che traspare anche nelle puntesecche degli anni Venti, in cui le figure affiorano appena percepibili, eppure così cariche di sensualità, tra l’intrico dei segni, perché come lui stesso affermò poco prima di morire «la vera arte è studiare l’irrealtà».