Dove e quando

Pinacoteca nazionale di Bologna, via delle Belle Arti 56. Ma-me 9.00-14.00; gi-do 9.00-19.00.

www.pinacotecabologna.beniculturali.it

 

 


La Pinacoteca nazionale di Bologna e i musei del cuore

Il tesoro nascosto/1  ◆  Il fascino eterno delle opere del Maestro dei Polittici bolognesi e le Collezioni comunali d’arte a Palazzo Accursio
/ 21.08.2023
di Gianluigi Bellei

Ci sono musei vastissimi, intriganti, discosti, monotematici; tutti con le loro storie, i loro capolavori, ammirati o nascosti. Ma, come scrive Michel Laclotte, se la «vocazione dei musei non è quella di attirare il pubblico a tutti i costi» ne esistono di particolari da visitare più e più volte: i musei del cuore. Personalmente uno di questi è ubicato a Palazzo d’Accursio a Bologna e contiene le Collezioni comunali d’arte. Qui vi è il ritratto più bello del mondo. Almeno per me. Anche se l’ho perso di vista e non ne rammento l’autore. Avevo circa 13 o 14 anni durante la prima visita e ho fatto una scoperta eccezionale. Teniamo presente l’elemento principe dei ritratti: gli occhi. Devono guardare lo spettatore e soprattutto, spostandosi a destra e a sinistra devono continuare a farlo. Solo in questo caso si tratta di un buon lavoro. Bene, nel girovagare fra le sale mi imbatto in una tela molto piccola (diciamo 20x30 centimetri) che contiene la parte centrale di un volto. Ho controllato gli occhi e spostandomi a destra e a sinistra mi sono accorto che tutto il volto mi seguiva e appariva di tre quarti quando ero ai lati e centrato quando ero davanti. Sconvolgente; il dipinto sembra muoversi. Ritornai molte volte per ammirarlo e carpirne il segreto. Non ho mai visto nient’altro di così stupefacente.

Poco fuori dal centro città c’è la Pinacoteca nazionale.

Il canonico Carlo Cesare Malvasia pubblica nel 1686 Pitture di Bologna – che negli anni successivi raggiunge le sette edizioni – e assieme alle Vite rende onore alla storia cittadina nel momento del suo maggiore splendore dopo le età dei Carracci e del Reni. Secondo Luigi Crespi – nelle sue Vite, uscite a complemento di quelle del Malvasia nel 1769 – il cardinal Lambertini, divenuto Papa nel 1740 col nome di Benedetto XIV, meditava di erigere una galleria che «fosse superiore a quante altre Gallerie Principesche si ammirano nella nostra Europa» collocandovi tutte le superbe pale d’altare dei pittori bolognesi. A metà del secolo da Dresda Gian Ludovico Bianconi preconizza la costituzione di una Galleria citando con estrema puntualità i dipinti che doveva contenere. Nel 1762 l’Accademia Clementina entra in possesso di un primo nucleo di dipinti donati da monsignor Francesco Zambeccari. Nel 1796 Napoleone fa requisire 31 dipinti da portare a Parigi. Con la soppressione dei conventi l’Accademia Clementina seleziona molti lavori ubicati in seguito all’Accademia di Belle Arti sorta nel 1802. Nel 1815 inizia il ritorno da Parigi dei dipinti trafugati e dopo i lavori di ampliamento e ristrutturazione la Pinacoteca apre al pubblico il 14 marzo 1882 accanto all’Accademia.

Una trentina le sale che comprendono i dipinti degli artisti bolognesi o di quelli che hanno operato a Bologna in ordine cronologico. Da rimarcare San Giorgio e il drago di Vitale da Bologna (1305-1361); diverse opere di Francesco Raibolini detto il Francia; la Madonna di Santa Margherita del Parmigianino; le sale dedicate ad Agostino, Ludovico e Annibale Carracci; la Strage degli innocenti di Guido Reni eseguita verso il 1611 e considerata uno dei più alti documenti pittorici del periodo; poi Giuseppe Maria Crespi, i fratelli Gandolfi e infine il simbolo della Pinacoteca ovvero L’estasi di santa Cecilia di Raffaello del 1515.

Soffermiamoci però su di una delle opere dello Pseudo Jacopino: il Polittico con la presentazione al Tempio e la Pietà del 1330-1335 (nella foto). Precisiamo che dello Pseudo Jacopino si sa poco e la maggior parte delle opere sono attribuzioni variabili nel tempo. Roberto Longhi, nella presentazione della «Mostra della pittura bolognese del ’300» avvenuta nel 1950, lo chiama Jacopino di Francesco. I nomi che giravano erano i più disparati; nel catalogo della Pinacoteca acquistato nel 1984 è definito Jacopino da Bologna. Lo stesso Longhi fa un tentativo e definisce i confini di uno stesso artista a dipinti previtaleschi in un’identica personalità che chiama Jacopino di Francesco dei Bavosi o dei Papazzoni. Senonché con gli anni si è capito che quel corpus pittorico non poteva essere datato alla fine del secolo bensì all’inizio e contemporaneamente Luciano Bellosi suggerisce il nome Pseudo Jacopino di Francesco. Nel 1986 Andrea Bacchi divide in due gruppi il lavoro dello Pseudo Jacopino propendendo per due mani diverse: quella del Maestro dei polittici bolognesi e quello del Maestro della Crocefissione campana, per via della tavola con lo stesso soggetto conservata al Louvre. Daniele Benati nel 2003 sostiene che il Maestro dei polittici bolognesi possa essere il miniatore-pittore Lando di Antonio e nel catalogo della mostra «Giotto e le arti a Bologna» del 2006 ritiene che i dipinti siano «ripartiti tra più maestri individuati sulla base di opere simbolo». Insomma l’ambiente era fluido anche se esisteva una sostanziale unità linguistica.

Il Polittico in questione è una tempera su tavola di centimetri 197 per 114. La parte centrale si riferisce alla Presentazione al Tempio sormontata dalla Pietà. In basso, racchiuse in archi lobati, tre formelle per lato come in alto, ma stavolta entro cuspidi triangolari. Al centro la Madonna con il sacerdote Simeone, la profetessa Anna e san Giuseppe con due tortore. Al lato destro Paolo con il libro e la spada, san Michele Arcangelo alato e con la spada e san Gerolamo, con il leone e il libro. A sinistra Pietro con la chiave, Agostino con accanto il bambino e Pietro crisologo, dottore della Chiesa. In alto la pietà e altri sei santi.

E proprio questa Pietà affascina. Il viso dolente della Madonna, ruvido, marmoreo, come le contadine; la mano di Gesù che l’abbraccia quasi senza vita, il corpo ossuto, il sangue, le spine. Un aspro naturalismo, scrive Benati, «tale da scompaginare come un brivido a fior di pelle le certezze dell’ordine toscano».

Nelle Collezioni comunali c’è inoltre il Crocifisso, di uno scultore bolognese eseguito verso il IV decennio del XIV secolo in legno policromo, che ha lo stesso impianto del volto del Cristo della Pietà in una «somiglianza delle fisionomie levantine tutt’altro che fortuite», precisa Luca Mor.

Lo Pseudo Jacopino è un pittore intriso dei duplici caratteri riminesi e francesi ricco di un «espressionismo tra umoristico, sarcastico e selvaggio», scrive sempre Longhi. Un maestro geniale che rivela la «vita credula e crudele, mistica e sensuale».