Per coloro che hanno vissuto la performance televisiva (1995) di Marco Paolini sul Vajont, La fabbrica del mondo (Rai3, episodi recuperabili) potrebbe avere il retrogusto della nostalgia canaglia. Ma anche qui, come là, si parla della realtà attraverso «un linguaggio che è finzione dichiarata». Il tema è di quelli forti e stimolanti: l’interazione tra noi e l’ambiente naturale, la dinamica della costruzione e della trasformazione del pianeta attraverso la dialettica feroce tra l’uomo e l’ambiente. Si parla di virus e di relazioni tra i viventi, di plastiche, del peso delle cose, del rapporto tra tecnologia ed evoluzione del genere umano, e di tanto altro.
Sullo sfondo dell’Agenda 2030 e della Cop26, La fabbrica del mondo muove da una domanda fondamentale, cioè se vi sia spazio per una rigenerazione del pianeta attraverso l’uomo, ossia proprio attraverso chi tanto sta facendo per distruggerlo. Quindi, si dà corpo a una forte istanza in favore di una rivoluzione culturale tramite l’immersione nell’oggi e nelle sue emergenze; c’è in filigrana una commovente fiducia nella possibilità di una palingenesi umana nata dalla capacità di un onesto confronto con il presente, ma anche da un soprassalto etico retto dal rifiuto della rassegnazione.
Il programma ci ricorda che l’agire umano ha un impatto sul pianeta, che l’uomo plasma a misura delle sue capacità ma anche delle sue debolezze: «Siamo – dice ancora Paolini – in un luogo che noi consideriamo casa: noi lo chiamiamo fabbrica perché è il risultato di tutte le azioni che facciamo. Gli esseri umani hanno raggiunto grazie alla tecnologia, dei livelli di azione che ci fanno associare ad una delle forze naturali, il vento, l’acqua, la grandine o ai mega disastri climatici. Noi siamo un’alluvione, siccità, tifone, ma al tempo siamo anche l’arca». Condanna e redenzione, rompi e ripara, più o meno.
La nostalgia di cui sopra deriva dall’aspetto tutto sommato poco teatrale dello storytelling, in cui non sempre si ritrova quella dinamica emozionante del «teatro della narrazione» che tanto ci piacque all’epoca. E questo nonostante alcuni colpi d’ala, quali la dinamica tra Paolini e Gaia, o il coro greco-brechtiano di corvi metallici in controluce. La bella scenografia da archeologia industriale è il correlativo oggettivo dell’emozione un po’ triste che si prova di fronte all’accatastarsi di oggetti che testimoniano la rapida perdita di significato delle cose in cui l’uomo trasforma durevolmente la materia; trovarobato della memoria.
La fabbrica del mondo è una suite narrativa sontuosa nel suo minimalismo, che ibrida vari linguaggi in maniera inedita, ben costruita nonostante l’apparente casualità; difficile uscire indenni da parecchi degli stimoli che essa semina sul suo percorso. Ancora maggiori se pensiamo alla presenza (pur poco attoriale) di un divulgatore scientifico eccellente come l’evoluzionista Telmo Pievani e agli interventi di specialisti, in una bella trasversalità culturale che unisce scienziati, epistemologi, scrittori, saggisti, economisti, esploratori; e ricordi di dimenticati eroi del quotidiano, come il medico Carlo Urbani. Tutti a raccontarci questo nostro modo un po’ rozzo di appropriarci delle cose, e di trasformarle, come se il pianeta esistesse sono per il nostro uso, abuso e consumo.
È giusto che sia l’uomo a innescare il circolo virtuoso che porti a riparare i torti che sono stati inflitti, per sua mano, al pianeta; non solo per ovvio riflesso di autoconservazione ma anche come necessario imperativo etico. Può comunque consolare la convinzione che il pianeta ci sopravviverà: la presenza umana su Gaia resterà, nella grande dinamica del tempo, una piccola e inessenziale parentesi, un accidente, forse un inciampo e un intoppo.