La parabola di Enrico Caruso è quella di un grande sogno: l’emigrante che lascia miserie e difficoltà del paese natale e trova il successo oltreoceano. Conquista quell’America amara che accoglieva gli emigranti italiani con i lavori più duri e umilianti. Caruso diventa la stella più fulgida della Metropolitan Opera di New York, governata dal ferrarese Giulio Gatti Casazza. Il Sovrintendente di ferro definisce «economico» il più pagato cantante del mondo, perché incassa sempre molto più di quanto costa.
Guida musicale di quel Met è Arturo Toscanini che con Caruso ha trionfato alla Scala e al Colon di Buenos Aires e con il quale terrà a battesimo La Fanciulla del West di Puccini. Oltre New York, si contenderanno Caruso, le grandi capitali: Londra, Parigi, Buenos Aires, Montevideo, Rio de Janeiro, San Pietroburgo.
Il figlio di un operaio e di una cameriera, giunti a Napoli dal Matese (oggi provincia di Caserta), gode di una popolarità e di un’attenzione della stampa come un reale. Rimane però sempre umile, ricordando quando cantava nelle chiese, nei café-chantants, al Caffè Gambrinus; la gavetta delle prime scritture in provincia, le trasferte al Cairo e ad Alessandria. La leggenda lo vuole scoperto dal grande tenore Fernando De Lucia mentre fa il posteggiatore allo stabilimento balneare Risorgimento di Napoli. Posteggiatori, che va ricordato, a Napoli erano popolari canzonettisti come Ciccillo o’ tintore, Totonno o’ nas’e’cane.
La vita personale di Caruso si identificò con le tematiche dolorose delle canzoni napoletane che rese famose per l’etichetta Victor (sarà il primo a vendere un milione di copie con O sole mio che all’estero scambiano come inno nazionale al posto della Marcia reale). Torna a Surriento, i classici Santa Lucia e Fenesta ca lucive, la finissima Vucchella di D’Annunzio e Tosti, ma soprattutto Core ’ngrato, brani che diventeranno un canone per ogni grande tenore che aspiri a seguire le orme di Caruso. Il dolore dell’uomo tradito e abbandonato dalla donna amata, cantato nella canzone di Cordiferro e Cardillo, fu quello che provò Caruso, piantato e poi ricattato dalla prima moglie, il soprano Ada Giachetti, che era fuggita con l’autista di famiglia.
Forse anche per questo il ruolo iconico di Canio nei Pagliacci è quello più universalmente accostato a Caruso, il quale portò al trionfo come primo interprete anche altre opere dei compositori della Giovane Scuola italiana: s’è detto di Puccini da cui si era recato per studiare Bohème e di cui diede molte prime esecuzioni in America, Giordano (Fedora), Cilea (Adriana Lecouvreur e Arlesiana), portando lustro anche a opere deboli di Leoncavallo, Mascagni e Franchetti.
Così anche la sua morte divenne leggenda mescolata al teatro. Il teatro e la vita si scambiano le parti: come nei Pagliacci, dove il protagonista deve continuare a recitare mentre la gelosia di scoprire l’amante della moglie lo spinge all’omicidio.
Caruso nell’autunno del 1920 a New York, affronta la parte pesante di Sansone nel capolavoro di Saint-Saëns, lavoro che gli procura sempre «un mezzo guaio», tanto che a fine spettacolo, dopo aver fatto crollare il tempio di Dagone, si deve buttare a terra per distendere i nervi delle costole. Cinque giorni dopo deve cantare il suo ruolo feticcio, Canio. Decide di non fare parola di un dolore che sente al fianco: «un’artista di vaglia non ha più il diritto di stare ammalato, e siccome i vecchi artisti m’insegnarono che quando si ha un nome e non si vuole smettere di cantare, bisogna cantare anche morti», scrive ad amici in Italia dall’albergo dove vive in 12 stanze, l’Hotel Vanderbilt fra la 34esima e Park Avenue. (La lettera è conservata in un archivio privato di Lugano, al cui proprietario va il sincero ringraziamento per aver generosamente messo a disposizione i preziosi documenti).
In mattinata la voce esce «na’ meraviglia». Uscito in scena sul carretto avverte una pugnalata al fianco sopra il SOL. «Arrivato all’Arioso [Vesti la giubba], sentivo nell’andare innanzi che il dolore cresceva a misura dell’intensità del fiato immagazzinato. E difatti allorquando arrivai alla frase finale e avendo caricato bene il mio mantice, nell’emettere la voce sentii come un ferro rovente attraversare tutte le vie respiratorie, arrivandomi alla gola e producendomi un dolore insopportabile sino a strozzarmi completamente. [… ] dalla mia esperienza voltai in singhiozzi tutta la frase e l’effetto per il pubblico riuscì lo stesso.
Da quel giorno comincia un Calvario incredibile di sofferenze fino agli sbocchi di sangue in scena che lo costringono alla resa nell’Elisir d’amore. Si scopre che ha una pleurite purulenta, sottovalutata dai medici americani, quella che «diciamo volgarmente ’na pesantezza dinto o’ fianco. La mia è stata la più fetente perché era da anni che me la portavo dentro ed era la causa di tutti i miei mali». Operazioni e convalescenze nell’inverno si alternano senza tregua. Il tepore di Sorrento e la Madonna di Pompei sembrano operare il miracolo, interrotto la sera del 2 agosto 1921 all’Hotel Vesuvio di Napoli, dove Caruso era stato trasportato in attesa di un intervento d’urgenza a Roma.
Finita la sua vita, cominciò la leggenda, alimentata da una scia di «eredi», anche grandissimi, che non fecero altro che ingrandire il modello ineguagliabile.