La pandemia, una «provvida sventura»?

Ma la calamità è davvero un’occasione per esercitare le proprie (presunte) virtù? Una domanda che accompagna l’uomo sin dai tempi antichi
/ 14.12.2020
di Elio Marinoni

Marcet sine adversario virtus
«La virtù illanguidisce senza un avversario».
(SENECA, La provvidenza, 2,4)

All’inizio dell’operetta De providentia il filosofo stoico Seneca pone il problema dell’esistenza del male nel mondo e dell’ingiustizia che sembra governarlo, in apparente contrasto con il concetto di provvidenzialità, intesa come il disegno razionale (lógos) immanente al cosmo secondo gli stoici: «Mi hai chiesto, o Lucilio, perché, se il mondo fosse governato dalla provvidenza, dovrebbero accadere molti mali agli uomini buoni» (La provvidenza, 1,1). E poco più avanti: «Perché agli uomini buoni accadono molte avversità?» (La provvidenza, 2,4).

La risposta si distende sull’arco dei sei capitoletti del breve trattato, ma è icasticamente riassunta dal lapidario aforisma che abbiamo posto in epigrafe: l’uomo buono in lotta con le avversità vi è paragonato a un atleta, le cui energie si snervano se non messe alla prova e senza un costante allenamento (La provvidenza, 2,3). Le avversità sarebbero dunque mandate dalla provvidenza all’uomo buono per permettergli di mantenere in esercizio e sempre vigile la propria virtù, che altrimenti si corromperebbe. «La calamità è un’occasione per la virtù», ribadisce Seneca nella stessa operetta (La provvidenza, 4,6) e concetto e formula sono ripresi da autori pagani come Lucano: «crebbe il valore nelle avversità», scrive a proposito di un combattente (La guerra civile, III, 614; in questo caso si tratta di virtus guerriera) e da autori cristiani, come l’apologista Minucio Felice: «la calamità è assai spesso scuola di virtù» (Minucio Felice, Ottavio, 36,8).

Più in generale, l’idea che l’esperienza del male e della sofferenza sia strumento di insegnamento e di affinamento anche morale costituisce un luogo comune della letteratura greca, confluito nella morale di una favola esopica: «spesso le sofferenze per gli uomini diventano insegnamenti» (Corpus Fabularum Aesopicarum, 134 ed. Hausrath). La sua formulazione più famosa è probabilmente costituita dal páthei máthos («attraverso la sofferenza [avviene] l’apprendimento») di Eschilo (Agamennone, 177), dove, nelle parole del coro, la sofferenza è il necessario viatico per la saggezza voluto da Zeus per gli uomini.

L’Agamennone fu rappresentato nel 458 a.C. Poco dopo la metà del secolo Erodoto, scrivendo le sue Storie, riprende il concetto mettendolo in bocca a Creso, il re di Lidia sopravvissuto alla conquista persiana, graziato da Ciro e assunto al proprio servizio: «le mie sofferenze, che furono spiacevoli, sono divenute ammaestramenti» (Erodoto, Storie, I, 207,1).

Idee simili sono sviluppate dalla letteratura giudaico-cristiana (in particolare neotestamentaria), dove la sofferenza e la «correzione» divina divengono strumento di redenzione: «È per la vostra correzione che voi soffrite! Dio vi tratta come figli; e qual è il figlio che non viene corretto dal padre? Se invece non subite correzione, mentre tutti ne hanno avuto la loro parte, siete illegittimi, non figli! Del resto noi abbiamo avuto come educatori i nostri padri terreni e li abbiamo rispettati; non ci sottometteremo perciò molto di più al Padre celeste, per avere la vita? Costoro infatti ci correggevano per pochi giorni, come sembrava loro; Dio invece lo fa per il nostro bene, allo scopo di farci partecipi della sua santità. Certo, sul momento, ogni correzione non sembra causa di gioia, ma di tristezza; dopo, però, arreca un frutto di pace e di giustizia a quelli che per suo mezzo sono stati addestrati». (Lettera agli Ebrei, 12,7-11, ed. CEI).

Una moderna elaborazione dell’idea della funzione ammaestratrice e redentrice della sofferenza è costituita dal concetto manzoniano di «provvida sventura», formulata a proposito della sorte di Ermengarda, la principessa longobarda sposata e poi ripudiata da Carlo Magno, resa «santa del suo patir» (Manzoni, Adelchi, atto IV, coro, v. 24). Così la apostrofa il poeta: «te collocò la provvida / sventura intra gli oppressi» (Manzoni, Adelchi, atto IV, coro, vv. 103-104). L’Adelchi fu scritto tra il 1820 e il 1822, ma la medesima concezione di una funzione benefica e provvidenziale della sventura è operante altresì nei Promessi sposi, in particolare nell’umana vicenda di certi personaggi (uno su tutti: don Rodrigo).

Ora, l’opera manzoniana è notoriamente permeata da un profondo cattolicesimo di forte impronta giansenista, che contribuisce a una visione piuttosto pessimistica dell’esistenza. Quello che invece stupisce constatare è come, negli attuali tempi di pandemia, facciano qua e là capolino, con funzione consolatoria, autorevoli richiami alla «provvida sventura»: è il caso di un articolo pubblicato sull’«Osservatore Romano», in cui l’autore, richiamandosi esplicitamente alla concezione manzoniana della vita come «segnata da un segno di espiazione; quasi un nostro dolce purgatorio», conclude: «Quanti, fra tutti i colpiti dal coronavirus, si saranno salvati grazie a questa “provvida sventura”? Vien voglia di dire tutti, a cominciare dai medici, dagli infermieri, dagli assistenti fino a quelli che non hanno potuto asciugare le lacrime dell’agonia dei loro vecchi» (Egidio Picucci, «L’Osservatore Romano», 15 luglio 2020).

Ed è altresì il caso di una dichiarazione rilasciata il 21 settembre 2020 dal cardinale Bassetti, presidente della Commissione Episcopale Italiana, che, riferendosi al Covid-19, ha affermato: «A indebolirci non sono mai state le prove ma le nostre tiepidezze e infedeltà, la mondanità spirituale che ci allontana da una vita evangelica di povertà e di disponibilità, portandoci a pascere noi stessi invece di quanti ci sono affidati» («ROMASette.it», 22 settembre 2020). E nel corso del mese di ottobre ha ribadito, pochi giorni prima di essere affetto egli stesso dal virus, che nulla avviene senza un disegno di Dio.