La Mozart è tornata a suonare al LAC

Intervista al Maestro Daniele Gatti, a Lugano per dirigere l’Orchestra Mozart
/ 18.04.2022
di Enrico Parola

A Pasqua Lugano ha calamitato le attenzioni dei musicofili di tutta Europa: al LAC è tornata ad esibirsi la Mozart, l’ultima orchestra creata da Claudio Abbado, cui il maestro milanese dedicò i suoi ultimi dieci anni di vita. Due sole serate: a Pasquetta a Bologna, città dove l’orchestra nacque nel 2004. Con la morte di Abbado, nel 2014, rischiò di concludersi l’esperienza della Mozart, ma dopo due anni riprese a tenere i concerti, sotto la guida di Bernard Haitink. Anche allora accanto a Bologna ci fu Lugano: merito del direttore artistico di Lugano Musica, Etienne Reymond, e forse del legame tra Abbado e la Svizzera, con gli indimenticabili concerti a Lucerna dedicati alle sinfonie di Mahler e Bruckner.

Ora a raccogliere il testimone di Abbado è Daniele Gatti, sessantenne milanese e stella di prima grandezza nel firmamento concertistico internazionale: è salito sui podi delle orchestre più prestigiose, dai Wiener Philharmoniker alla Boston Symphony, dalla Staatskapelle di Dresda alla Orchestre Nationale del France, di cui è stato direttore musicale; incarico ricoperto anche alla Opernhaus di Zurigo, alla Royal Philharmonic di Londra, all’Opera di Roma e attualmente del Maggio Musicale Fiorentino. Oltre che della Mozart, dopo aver guidato anche un’altra orchestra di Abbado, la Mahler. 

Maestro, che rapporto aveva con Abbado?
Quando ero studente dirigeva concerti memorabili alla Scala; non avevo rapporti particolari con lui, ma ovviamente era un riferimento artistico. Però quando tenni i primi concerti un amico mi riportò i suoi saluti: pensavo non sapesse neppure che esistessi, invece scoprii che mi seguiva, seppur con la sua tipica discrezione. 

Ha diretto le migliori orchestre al mondo; che esperienza è guidare la Mozart?
Diversa, perché diversa è questa realtà. È formata da prime parti delle migliori orchestre europee, che si riuniscono per il puro gusto di suonare assieme, tra amici. Non tutti i membri attuali hanno suonato con Abbado, ma è rimasto il suo modo di lavorare, il suo spirito: ascoltarsi l’un l’altro e una grande gioia nel fare musica. Poi, ovviamente, quando l’ha diretta Haitink non suonava come con Abbado, perché ogni direttore dà il suo stile. E così è con me; se mi avessero chiesto di replicare quello che faceva Claudio non avrei accettato, non avrei mai voluto scimmiottarlo, voglio proporre ai musicisti la mia visione della musica. 

Lei ha l’agenda congestionata; perché ha scelto di guidare la Mozart?
Perché me lo hanno chiesto; anzi, perché me l’aveva chiesto, indirettamente, Abbado stesso; negli ultimi tempi aveva espresso il desiderio che fossi io a riceverne il testimone: «Vorrei che vi prendesse Daniele» aveva confessato ai musicisti.

Che significato ha avuto questo concerto a Lugano?
Enorme, perché avevo accettato l’incarico nel 2019, ma poi era scoppiata la pandemia e quindi prima di Lugano avevamo fatto solo due concerti insieme. Non è un’orchestra stabile: si guardano le agende, si vedono le disponibilità mia e dei musicisti e poi si pianificano concerti e tournée.

Quanto l’ha segnata questo tempo di pandemia?
Molto, come tutti i musicisti e in generale tutti gli uomini. Da un giorno all’altro ci siamo ritrovati con i teatri chiusi e l’attività sospesa, senza sapere quando e come si sarebbe ricominciato. In Italia fui il primo a suonare dopo il lockdown, il 2 giugno nei giardini del Quirinale, davanti al presidente Mattarella, con l’orchestra dell’Opera di Roma: fu un momento indimenticabile, come rimarranno ricordi indelebili anche i concerti che abbiamo tenuto in seguito. Senza pubblico, poi con le persone distanziate e anche noi sul palco a distanza, con le mascherine e le barriere in plexiglas tra gli strumenti a fiato; ma andava fatto, quelle erano le circostanze e l’alternativa era tra il ritirarsi dalla realtà o viverla per come si poteva e soprattutto con il desiderio di bellezza che anima il nostro essere musicisti. Non giudico la resa artistica, ma sicuramente in quei mesi abbiamo suonato col cuore; saremmo andati avanti anche se avessimo dovuto suonare a 5 metri l’uno dall’altro.

Oggi a che punto del suo percorso artistico è arrivato?
A saperlo… Direi che mi sembra di iniziare a capire qualcosa della musica; ma lo pensavo anche venti, trent’anni fa, e probabilmente anche quando ero ai primissimi concerti; il 3 maggio saranno 42 anni dal mio debutto ufficiale sul podio. Non sono affermazioni contraddittorie: quando ero più giovane capivo quel che potevo della vita e la comprensione della musica era adeguata alla maturità della persona; poi le tante esperienze, belle e dolorose, anche molto dolorose, hanno cambiato il modo di vedere la realtà, sé stessi e quindi anche la musica. 

È cambiato anche il suo modo di dirigere?
All’inizio, atteggiamento credo tipicamente giovanile, forse volevo mostrare le mie capacità, volevo sì trasmettere il pensiero di un compositore, ma allo stesso tempo ci tenevo a mostrare la mia bravura, dimostrare le mie idee, trasmettere tutta l’energia che sentivo dentro. Poi col tempo si impara sempre più a farsi trasparente alla verità di una musica.

A Lugano ha diretto l’ouverture da Le creature di Prometeo, il Triplo Concerto e la settima sinfonia di Beethoven: come si è evoluto il suo rapporto col genio di Bonn?
Penso che sia un autore con cui riesco a esprimere bene la mia indole: non sono un conservatore, sono un rivoluzionario. Non posso accettare che si suoni in un certo modo perché lo si è sempre fatto. Io sono nato con la Pastorale: mia mamma l’ascoltava sempre quando ero nella sua pancia. Quasi tutti eseguono le prime battute del primo movimento e le ultime di quello finale con un rallentando; mi è capitato di lavorare anche due minuti su due note perché l’orchestra suonasse a tempo. L’inizio è il trasferimento di Beethoven in carrozza da Vienna a Heiligestadt, un viaggio diretto; solo l’ultima nota ha una corona, che esprime lo stupore del cittadino quando esce dall’abitacolo e si trova immerso in un mondo di fragranze, colori, di aria pulita. E i due colpi finali del corno non vanno rallentati: è il chiudersi del libro in cui Beethoven, smessi i toni del Titano che afferra il destino per il collo, passeggia con noi da uomo a uomo. 

Con lei anche la settima sinfonia non suona prometeica…
Tanti eseguono il primo movimento in modo scultoreo, invece è una danza gioiosa; il secondo movimento non è una marcia funebre, è sì un anti-climax rispetto a quanto ascoltato prima, ma comunque un Allegretto. E il finale, se eseguito troppo velocemente e violentemente, diventa un frullatore.