La Memoria come opportunità

Giorno della Memoria / 1  La storica Anna Foa lancia un appello ai colleghi israeliani: tocca a voi prendere la palla, mandate un messaggio di libertà agli intellettuali europei (Prima parte)
/ 24.01.2022
di Sarah Parenzo

Figlia di Vittorio Foa e Lisetta Giua, Anna Foa si è laureata nel 1968 alla Sapienza, dove successivamente ha insegnato storia moderna. Membro tra le altre cose del comitato scientifico del Museo nazionale dell’ebraismo italiano e della Shoah, nei suoi libri ha trattato prevalentemente temi legati alla storia dell’ebraismo e dell’inquisizione.

Alla vigilia del 27 gennaio si percepisce una sorta di stanchezza della memoria. Come trovare una chiave per cambiare le caratteristiche di una liturgia che rischia di esaurire il suo messaggio?
Innanzitutto inserirei più storia e meno memoria. Più storia, perché non se ne fa abbastanza, e meno memoria, perché quest’ultima sta diventando troppo fumosa. Dobbiamo raccontare i fatti, ancora troppo ignorati, ricostruire vite cancellate, anche narrandole sotto forma di storie, soprattutto quando si parla ai più giovani.

Ma più di tutto dobbiamo trasmettere il messaggio che non si tratta di una storia a sé, bensì che la storia ebraica, anche quella relativa al capitolo della Shoah, fa parte della grande storia e come tale appartiene a tutti. Di conseguenza anche la memoria non è esclusivamente ebraica, anzi, serve soprattutto ai non ebrei. Non a caso la Giornata della memoria è l’unica commemorazione civile comune a tutti i paesi dell’Unione Europea. Prende spunto dalla Shoah, ma per affermare che un evento simile non deve mai più ripetersi e che l’Europa deve fondarsi sul rifiuto di razzismo e antisemitismo, sull’accoglienza, sulla libertà. Che questi sono i nostri valori.

D’altra parte quest’accezione più universalistica della Shoah sembra non star bene a tanta gente e gli ebrei sono i primi a reclamare la particolarità e la specificità della storia ebraica.
Io sono impressionata dalla veemenza con cui viene recepita questa questione, che ho affrontato come storica. Ebrei, per il resto progressisti e aperti al mondo, che gridano di voler difendere fino alla morte l’«unicità» della Shoah. Ma perché devi difendere fino alla morte un criterio storiografico? Semmai discutilo!

Pare di essere tornati indietro di un secolo, quando la storia del «popolo eletto» sembrava richiedere criteri interpretativi differenti da quella degli altri! Credo si tratti di un modo di riprendersi la Shoah da parte degli ebrei, soprattutto italiani. Non deve essere un criterio interpretativo del mondo, né un monito per quest’ultimo, ma solo una vicenda ebraica. È come se più o meno consapevolmente gli ebrei dicessero: rendendola universale ci state scippando la Shoah. Ed ecco di nuovo il contrasto tra la vecchia anima universalistica e quella particolaristica che emerge pericolosamente.

Se parliamo di universalismo non posso fare a meno di pensare al ruolo degli intellettuali, e in particolare a tuo padre Vittorio, politico, sindacalista, giornalista, storico e saggista. Perché siamo orfani di personalità di quello spessore, che cambiamento pensi sia intervenuto? In una recente intervista hai parlato con angoscia di quella che hai definito una mutazione antropologica.
Sì, mi riferivo al fatto che oggi la gente è diversa e considera normali cose che sino a poco tempo fa non si consideravano tali. Cioè per mio padre l’universalismo era un dato di fatto, non aveva nemmeno bisogno di pensarci sopra, mentre adesso devi discuterlo, e anche così… Allo stesso modo per la sua generazione era ovvio che gli ebrei si occupassero del mondo anche, e proprio, a fronte di quello che avevano passato, della loro esperienza. Se vuoi era una cosa che faceva parte dell’etica: ecco è il rapporto con l’etica che non c’è più.

È questo forse uno dei modi di mutare antropologicamente, avallando come condotte accettabili e ovvie condotte prive di etica. Anni fa, una volta accompagnai mio padre a parlare in una scuola di Roma. Dopo che ebbe finito di raccontare di sé, dell’esperienza partigiana e degli anni trascorsi in prigione, un bambino si alzò e disse: «Ma scusi, lei era già ebreo, chi gliel’ha fatto fare di essere pure partigiano?» Questo però è il clima oggi, capisci.

Enzo Traverso attribuisce la crisi dell’intellettuale ebreo europeo alle due grandi «religioni laiche» della Shoah e dello Stato d’Israele. Perché gli accademici ebrei italiani fanno sentire così poco la loro voce?
Il fallimento, se così vogliamo chiamarlo, risale agli ultimi trenta-quarant’anni, sarà stato il terrorismo, il sovranismo o la prevalenza di nuovo di criteri identitari e religiosi. Se guardi al passato ti accorgi che c’erano molta più libertà e complessità di interpretazione del reale, un reale che non è solo ebraico, ma si intreccia in maniera molto complessa con l’ebraismo. Adesso è tutto molto semplificato. Per esempio, tranne poche eccezioni, penso a JCall, oggi nel mondo ebraico non si può più dire di non essere sionisti, o di essere critici della politica di Israele, senza essere accusati di antisemitismo. Per non parlare del fatto che l’unico parametro di valutazione è diventato il rapporto con Israele. Lentamente si è creato un clima di paura che ha fatto tacere anche gli accademici ebrei e ancor di più gli altri.

Tornando alla didattica della Shoah, su cosa vi vengono poste le domande? Come vengono preparati i ragazzi?
Le domande sono quasi tutte su Israele, e anche questo è significativo. Ma si lavora bene solo quando i professori hanno svolto una vera preparazione. Il problema è che anche gli insegnanti si muovono in un clima di condizionamento. Guardano al sapere comune storiografico, non vanno oltre. Alcuni hanno rapporti con Yad Vashem, il Memoriale Israeliano della Shoah, senza che questo però li porti a una maggiore apertura. Io invece credo che questa apertura sia necessaria. Innanzitutto va stabilito un rapporto con gli altri genocidi del Novecento, che ovviamente sono tutti diversi e rispetto ai quali la Shoah ha delle peculiarità enormi. Il mondo ebraico teme che in questo modo si rischi la banalizzazione della Shoah, ma questo discorso va affrontato, perché se tu parli solo degli ebrei e della Shoah, è un problema. (Continua)