Recentemente hai curato per Laterza l’edizione italiana di un libro sulla storia mondiale degli ebrei. Un titolo molto ambizioso, ma sei riuscita a far passare il messaggio che desideravi?
Il messaggio era già presente e forte nell’edizione originale francese, curata dallo storico Pierre Savy. Per l’edizione italiana abbiamo aggiunto alcuni saggi relativi non solo all’Italia, ma anche alle percezioni italiane di quali sono gli argomenti importanti qui per il mondo ebraico, come l’opera di Hannah Arendt per esempio.
Ma soprattutto abbiamo scelto di far sì che il libro terminasse con l’istituzione della Giornata della memoria come giornata di promozione di un’immagine non razzista e non antisemita dell’Europa, una giornata attraverso la quale l’Europa assume la memoria della Shoah a propria base etica. L’edizione originale francese invece finiva con un attentato antisemita di matrice islamica. Devo aggiungere che, rispetto a Israele, in Italia la storiografia è ancora molto indietro, in ritardo, ancora molto occupata dall’assimilazione e dai problemi identitari.
Effettivamente da Israele, nonostante il cupo clima politico dominante, si ergono voci di intellettuali e accademici che dimostrano una libertà di pensiero molto maggiore che in Italia, anche quando si parla di Shoah. Sempre in Israele, per esempio, già da anni si discute del rischio di diventare professionisti della memoria. Parlare di «shoah business», ossia degli investimenti di danaro intorno al ricordo dell’Olocausto è fondato, ma sembra che per affermarlo senza farsi spaventare dall’antisemitismo sia meglio detenere un passaporto israeliano. L’anno scorso ho intervistato Yishai Sarid, che nel suo libro, Il mostro della memoria, affronta proprio questi temi senza peli sulla lingua. Cosa ne pensi?
In Israele questo tipo di intellettuali sono una minoranza, ma restano l’intellighenzia del paese, mentre in Italia no. Cioè in Israele, la maggior parte dell’accademia e degli intellettuali in senso tradizionale, ovvero quelli che si aprono ai giornali, ai dibattiti politici, i grandi scrittori, ecc. hanno un ruolo, mentre in Italia non lo hanno più. Inoltre quando si trattano simili argomenti hanno tutti timore di apparire antisemiti.
Per questo noi, come intellettuali italiani, abbiamo bisogno che da Israele ci mandino un messaggio di libertà. Libertà di parlare, di osare, di collegare il passato con il presente, proprio perché se arriva da loro è in qualche modo legittimato. Personalmente quando ho l’occasione scrivo sempre della libertà di parola e del pluralismo israeliani, e penso: «Se dobbiamo essere tutti sionisti, perché poi quando viene una parola di libertà da Israele non la raccogliamo?» Inoltre, qui si ha spesso una visione monolitica di un Israele senza sfumature, quindi far passare un’immagine della grande varietà di opinioni nel Paese è di per sé un traguardo.
Con l’appoggio degli intellettuali israeliani si potrebbero organizzare delle discussioni e riflessioni, e non solo sulla Shoah, anche di carattere profondamente ebraico ma universalistico. E soprattutto indipendentemente dalle istituzioni ebraiche italiane, se queste non li ritengono abbastanza kosher. Insomma vorrei trasmettere agli intellettuali israeliani l’idea che adesso tocca a loro prendere in mano la palla, perché la diaspora potrà aiutarli a sua volta contro l’occupazione, ma solo se prima viene aiutata a riflettere. Il problema è che da tempo gli israeliani tendono ad andare per i fatti loro, trascurando la diaspora. Quest’ultima a sua volta, pur essendo subordinata, dal punto di vista intellettuale a Israele, non lo è di fatto ai suoi intellettuali, così che se anche tutti qui leggono i libri degli autori israeliani, i romanzi, alla fine la riflessione vera non la fanno.
Penso che le tue risposte, dalle quali trapela una certa tristezza, stimolino molte riflessioni. Vorrei farti un’ultima domanda in tema di identità. Tu, come me, provieni da una famiglia ebraica per parte di padre, e in età adulta hai scelto anche di convertirti formalmente all’ebraismo. Cosa pensi che oggi possa contribuire a determinare un’identità ebraica, su quali basi si poggia un’appartenenza nel complesso contesto che si è creato?
Guarda, quando penso all’identità ebraica mi ricordo sempre di uno studioso che sosteneva che gli ebrei tedeschi nel secondo Ottocento, a un certo punto si sono identificati come ebrei, non per la terra né per la religione, ma per la storia, perché avevano una storia da ebrei. E quando tu prima parlavi della Shoah e della famiglia Parenzo, mi è venuta in mente questa cosa. Ovvero, io sento molto che quello che mi ha portato all’ebraismo è la mia storia, il fatto di guardare indietro a quello che è successo, capendo che c’era una storia che non era diversa dall’altra grande storia, ma era comunque una storia con cui mi identificavo, la mia storia, che poi era la storia di tanti altri.
Certo, anche questo presenta dei rischi, perché può farti pensare che la tua storia sia diversa da quella degli altri, il che non è assolutamente vero. Oppure può farti pensare che sia una storia privilegiata, o che tutti quelli che non hanno la tua storia non valgano come te. Un rischio reale. Tuttavia mi sembra si tratti di rischi inferiori a quelli dell’appartenenza fondata sulla religione, la terra o il sangue, almeno credo… (Fine)