Certo non dev’essere facile, in un’epoca come quella attuale – contraddistinta dallo spiccato ritorno al più superficiale materialismo e dalla globale regressione sociale e politica – continuare a ricoprire il ruolo di ex leggenda della musica «impegnata», con tutta la consapevolezza e nostalgia che inevitabilmente ne derivano. E c’è da credere che per la 77enne Joan Baez, vero mito del folk americano, possa trattarsi di un’impresa particolarmente dura: a differenza del compagno di un tempo, il coetaneo Bob Dylan, Joan non è infatti riuscita del tutto a «esportare» la propria arte oltre i confini della magica stagione di protesta a cavallo tra gli anni 60 e 70, finendo per rimanere legata a quell’irrepetibile periodo di speranze e lotte sociali – come una vera e propria icona, la quale, tuttavia, non ha mai smesso di combattere le proprie battaglie attraverso dischi che, seppur non più influenti come un tempo, hanno sempre confermato la grande professionalità di una tra le voci più interessanti della scena angloamericana.
Almeno fino ad ora, poiché, prima ancora della sua pubblicazione, questo nuovo Whistle Down the Wind è stato annunciato come l’ultimo album che l’artista inciderà nella sua vita – un definitivo addio alle scene e agli ammiratori di una carriera ormai sessantennale. Nonostante ciò, il disco segue comunque l’abituale schema favorito dalla Baez nell’arco degli ultimi anni: non essendo mai stata una compositrice particolarmente assidua, recentemente Joan si è proposta soprattutto come interprete di brani altrui, che infonde della sua peculiare vocalità e dello spessore e intensità che il proprio stile canoro inevitabilmente conferisce loro. Ecco quindi che la tracklist mostra la classica gamma da sempre cara all’artista, a cominciare dalla title track – esempio «da copione» di ballata malinconica e riflessiva, intrisa di un dolore struggente e quasi palpabile – e dallo splendido lento The Things that We are Made Of, uno dei brani più toccanti dell’ultimo, omonimo album di Mary Chapin Carpenter, il quale in questa versione beneficia di un travolgente accompagnamento al pianoforte. Forse più interessanti risultano, tuttavia, pezzi dallo stile meno tradizionalmente melodico, come il commovente e cadenzato Another World o l’intrigante Civil War, il cui cantato quasi soul richiama il repertorio della migliore Nina Simone; e se, per contrasto, The Great Correction mostra invece uno spirito quasi country, non manca nemmeno una proposta «socialmente rilevante» quale The President Sang Amazing Grace, in cui un evento di cronaca (la nota strage di Charlestown del 2015) funge da spunto per un affresco ad alto voltaggio emotivo della solidarietà tra comuni cittadini. Peccato, però, che l’ingenuità implicita nel tessere gli sperticati elogi di un qualsivoglia presidente degli Stati Uniti e la retorica di cui le liriche traboccano precludano al brano la forza delle vecchie «topical songs» con cui Joan si è sempre dilettata.
Come sempre, meglio tornare ai suggestivi modelli di un tempo – si veda Silver Blade, che, pur essendo un brano contemporaneo, composto dal giovane Josh Ritter (uno degli esponenti più interessanti del moderno folk statunitense), segue per filo e per segno i dettami dei traditional americani, e, nello specifico, delle «murder ballad» di un tempo; lo stesso si può dire di I Wish the Wars Were All Over, ballatona firmata da Tim Eriksen, la quale, per struttura melodica e testo, potrebbe provenire direttamente da un album anni 40 della Folkways Records. L’interesse di Joan per le «giovani leve» è, del resto, dimostrato dal fatto che Ritter è presente in questo disco anche con un’altra traccia, la più delicata Be of Good Heart – un onore condiviso con Tom Waits, di cui, oltre alla già citata Whistle Down the Wind, Joan canta anche The Last Leaf, pezzo composto in coppia con la moglie Kathleen Brennan e definibile come l’arguta quanto amara rilettura di un vero «inno per sopravvissuti» («sono l’ultima foglia sull’albero»).
Ecco quindi che l’unico limite di quest’album risiede, forse, proprio nella rinnovata determinazione di Joan a concentrarsi esclusivamente sulle tipologie stilistiche di sempre, e, nello specifico, su ballate molto «soft» e brani folk dal sapore quasi integralista – i quali, alla lunga, potrebbero risultare un po’ ripetitivi per l’ascoltatore non particolarmente affezionato al genere. Del resto, la particolare vocalità e stile interpretativo di Joan l’hanno sempre, in qualche modo, «relegata» a brani lenti e riflessivi, o comunque dal gusto spiccatamente cantautorale, rendendole difficile riciclarsi su altri fronti, o anche solo avventurarsi in territori più rock. Tuttavia, l’estrema competenza della Baez rimane innegabile, così come la magia ancora palpabile di una voce che gli anni non hanno indebolito; e nonostante l’inevitabile malinconia per il ritiro dalle scene di un’altra icona, non si può quindi che esserle sinceramente grati per tutto ciò che ha dato.