Di truffatori è pieno il mondo. Qualcuno a volte lascia il segno, riuscendo a essere ricordato per un tempo che va oltre quello della vita. Vi è poi chi, oltre al ricordo di ingegnosi furti e ammanchi, si lascia alle spalle anche una dolorosa scia di sangue. Così è stato per Charles Sobhraj, anche chiamato «Bikini Killer» o, appunto, «The Serpent», dando con le proprie generalità il titolo a una delle migliori serie di genere degli ultimi tempi.
The Serpent (otto episodi), racconta vita e gesta di uno psicopatico tanto affascinante quanto manipolatore, tanto sfuggente quanto imperscrutabile. Negli anni Settanta, Sobhraj (figlio di un indiano e una vietnamita, ma con passaporto francese e tratti somatici di difficile attribuzione) si accanì con spietatezza sui backpacker della hippie trail, quella rotta che permetteva a 40’000 giovani all’anno di percorrere, via terra, le migliaia di chilometri che separavano, ad esempio, Londra da Karachi, o Amsterdam da Kathmandu.
Sobhraj entrava in scena proprio alla stregua di un serpente, dapprima ammaliando la propria vittima e facendola sentire fortunata, per poi gettarla in una spirale di terrore dalla quale sarebbe riemersa solamente quando ormai cadavere.
La scelta dell’attore cui attribuire il ruolo principale non avrebbe potuto essere più adeguata. Nei panni di Sobhraj troviamo infatti Tahar Rahim, algerino che avevamo imparato a conoscere e ad amare nel 2009 in Il profeta, di Jacques Audiard che si era, fra le altre cose, portato a casa un César per la migliore interpretazione, un Golden Globe e una Palma a Cannes. Qui, di nuovo, Rahim, dà il meglio di sé, in un ruolo che lo riscatta dai cliché che lui stesso ha recentemente denunciato, e che lo vorrebbero costantemente impegnato a impersonare un kamikaze o un terrorista arabo.
Rahim è riuscito a ricostruire un personaggio solido per quanto ambiguo e sfuggente, capace di muoversi con agio e astuzia nelle popolose realtà del Sudest asiatico, spostandosi con disinvoltura (e passaporti falsi) tra la Thailandia, il Nepal, l’India e la Francia. I fatti narrati sono frutto di una ricerca rigorosa, e stupisce scoprire come il primo a insospettirsi sia stato un segretario dell’ambasciata olandese ostacolato dai suoi superiori, quel Mr Knippenberg che ha fatto della caccia al serpente la propria ragione di vita. Intorno all’olandese, l’ambiguo mondo degli expat, strane creature dal passato poco trasparente, ma capaci di adeguarsi in modo camaleontico a ogni nuova realtà.
The Serpent non è solo il viaggio (colmo di suspence all’inverosimile) nella mente indecifrabile di un serial killer che sconta tuttora la propria pena in carcere, dopo essersi reso protagonista di alcune fra le più clamorose evasioni del Novecento, ma è anche una densa full immersion nel costume e nella storia recenti. Ma colori caldi, paesaggi mozzafiato e atmosfere rarefatte, per quanto raffinati, non sarebbero bastati a rendere The Serpent oggetto di critiche tanto positive, se non ci fosse la presenza, oltre del già citato Rahim, anche della comprimaria Monique-Marie-Andrée (una strepitosa e indimenticabile Jemma Coleman), figura realmente esistita e che trasformò la coppia in una copia spietata di Bonnie and Clyde, e le cui gesta hanno ancora oggi il sapore dell’incubo.